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Come riconoscere un vecchio amore? Come, in altre parole, identificare dopo molto tempo un’antica passione evitando il rischio, da un lato, della nostalgia, dall’altro dell’illusione e dell’autoinganno? Il tempo indubbiamente muta i termini del confronto, l’idea stessa dell’affetto nei confronti una persona, del trasporto per un oggetto, un genere, una sensibilità: e allora il pericolo è non vedere ciò che di nuovo, e bello, ci sta attorno, intrappolati in una concezione desueta, normativa, irrimediabilmente datata. Tutte le sensazioni appena elencate, in effetti, possono darsi in forme rinnovate, oppure possono restare identiche per periodi prolungati: la questione però riguarda il riconoscimento di queste, piuttosto che il loro essere in quanto tali.
Gli Heike Has The Giggles, già al momento della prima emersione dalla melassa indistinta delle band adolescenziali di sedicenni (uno dei, probabilmente, primi resoconti è apparso proprio su queste pagine), erano portatori di un suono e di un modo di intendere il rock in via di entrata in crisi: quel pop-rock aggressivo, venato di funk, che intorno alla metà degli anni 2000 aveva conquistato un pubblico tra il vasto e l’oceanico, anche al di fuori della Gran Bretagna, ed al quale era connesso un approccio gradevolmente disimpegnato, autoironico, citazionista senza mai intendere niente di più del riferimento glamour. Il paragone, originario, tra il gruppo di Solarolo e gli Arctic Monkeys appariva, all’epoca, tanto evidente quanto azzeccato. Loro, al di là dei debiti, sembravano lanciati verso un successo più rilevante ed immediato di quello per il momento ottenuto, forse anche a causa della produzione poco coraggiosa del primo disco, molto più scontato e pop, ad esempio, di un demo capitato tra le mani di chi scrive subito dopo una esibizione dei nostri nella serata consacrata alla calata dei Chemical Brothers su una atterrita Livorno.
Come è possibile allora dire qualcosa su un album che tutt’ora ripropone stilemi che abbiamo apprezzato e che ci hanno divertito, ma che appaiono senza dubbio già sentiti? D’altra parte, se gli Arctic delle ultime due prove hanno tentato di percorrere strade diverse, anche i nostrani Heike sembrano avviati, con molta moderazione, verso una transizione di questo genere, nel nuovo album “Crowd Surfing”. Gli episodi migliori dell’album sono in effetti collegati a quella che si potrebbe definire una inedita vena cantautorale della sempre brava Emanuela Drei: in particolare “Breakfast” mostra una classe ed una ispirazione da gran signora del rock, in divenire, certo. In generale l’evoluzione, se c’è, risulta da alcune semplici sfumature: non mancano infatti le solite scariche di elettricità che caratterizzavano il primo lavoro dei tre romagnoli, come “Blabla” e “M. Gondry”, indubbiamente piacevoli e divertenti, ma è evidente l’urgenza di andare oltre. E allora sono brani come “Repetitive Parts” e “Next Time” a suggerire, se non la linea intrapresa, ancora avvolta in una certa oscurità, la necessità stessa del mutamento. In questo senso l’album è allora decisamente più soddisfacente, maturo, consapevole di “Sh!”, incanalato in un percorso che potrebbe portare ad una rinnovata solidità della proposta. Solidità e idee chiare che colpivano nel corso delle primissime esibizioni dei tre, e che sembravano andate in parte perdute.
Se il problema è il riconoscimento di qualcosa di volatile, di fluttuante, “Crowd Surfing” mette alla prova l’ascoltatore non solamente a proposito di vecchie fiamme punk-funk delle quali valutare l’invecchiamento, ma anche, ed è un problema tipicamente italiano, rispetto a ciò che c’è fuori dai soliti gruppi di giro che più o meno accade di vedere nel locale più vicino a casa. Gli Heike Has The Giggles, analogamente ad esempio ad un gruppo (per il resto molto lontano) come gli Aucan, propongono qualcosa che, per l’Italia, e, appunto, per ciò che si può vedere live senza dover espatriare, risulta molto originale. Ma, evidentemente, pur avendo i nostri un più che onorevole curriculum di collaborazioni e “hanno suonato con”, appena varcati i confini questa originalità tende immancabilmente a perdersi. Non si tratta qui della solita, stucchevole, polemica sul provincialismo della nostra scena, quanto del fatto che questa ha determinate caratteristiche ben precise. Gli Heike Has The Giggles, da questo punto di vista, sono ancora un piacevolissima eccezione, differente dal solito ascolto italiano: quando cesseranno di evocare in noi una quantità di bellissimi ricordi, quello sarà il momento della loro definitiva emancipazione.
70/100
(Francesco Marchesi)
12 febbraio 2012