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L’ineffabile viaggio darwiniano degli Shearwater è terminato, il loro Beagle è approdato sicuro sotto il controllo sereno dell’ammiraglia Sub Pop e “Animal Joy” è il rapporto steso a suggello della loro meravigliosa esperienza musicale, riecheggiata e mai glorificata sufficientemente nelle nuove 11 tracce che si infilano rapide una dietro l’altra con la liquidità di un filo di cotone nella cruna di un ago.
Gli Shearwater avevano perseguito un simbolo potente da cui tutto discendeva e da cui tutto si animava naturale e non autoreferenziale, che fosse un trattato ornitologico o uno studio etologico dal sapore madreperlaceo della verità.
Anche se la open-track “Animal Life” è in grado con lirica semplicità di restituirci la gioia istintiva della vita, essa si rivela ben presto una falsa pista perché resta un unicuum, nel quale sopravvive la levità con cui ci avevano abituati a fronteggiare la rivelazione del loro viaggio oceanico. Non basteranno né la power hit “You As You Were”, che a un certo punto sai che sta martellando a vuoto, né la canonica ed esangue “Run The Banner Down” a rintracciare l’incanto delle antiche piste battute. Sull’altro piatto della bilancia pesano brani enfatici come “Breaking The Yearlings” e “Insolence”, o sull’orlo di un’imbarazzante ipertrofia come “Open Your Houses (Basilisk)”.
Non c’è niente da fare. Gli Shearwater sono tornati tra la razza umana e ciò ha richiesto di ricodificare il discorso, adeguarsi, adattarsi, cedere qualche carato di orgoglio à la Walden per il senso metropolitano di essere “contro”, normalizzando il loro simbolo, il loro “particulare”. A dispiacere non è il fatto che la voce bizantina di Meiburg, un tempo austera mentre decantava la bellezza naturale (resiste con arcane increspature in “Dread Sovereign”), si sia addolcita nella predicazione new wave (“Believing Makes It Easy”), non è la muscolarità che è tensione problematica (“Pushing The River”), non è lo schiaffetto punk (“Immaculate”) né la sgroppata synth pop (“Star Of The Age”). No. Sono componimenti giocosi, sono divertissement concettuali da servire in tavola e da gustare senza troppe domande.
A dispiacere è l’assurda velocità con cui si ingollano questi nuovi brani, la rapidità con cui si è verificata la mutazione che ci impedisce di misurare la perdita di un bene. Una rapidità che un po’ fa male, indefinibile vuoto alla bocca dello stomaco di fronte a uno spreco – che so il versamento dell’ultima preziosa bottiglia d’acqua nel deserto o l’abbattimento di quel solo albero che ti permetteva di dire “il giardino di casa” – o di fronte a quell’eccessivo zelo nel rendere le armi, il che facilita con premura molesta la resa al vincitore.
65/100
(Stefania Italiano)
06 marzo 2012