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Stephin Merritt ne sa di certo una più del diavolo ma questo, dopotutto, non dovrebbe sorprenderci poi troppo. Prima infatti che il guru Simon Reynolds, da buon storiografo laureato, saccheggiasse (probabilmente senza nemmeno accorgersene) le teorie vichiane della storia, plasmando il fortunatissimo concetto di “retromania” (e relative implicazioni), c’era già (e sempre ci sarà) il buon vecchio Merritt con i suoi Magnetic Fields. Per capirlo, basta sentire il nuovo “Love At The Bottom Of The Sea”, undicesimo capitolo della saga magnetica che, in un sol colpo, segna il ritorno al nido della Merge e un rinnovato amore, a tratti fulminante, per i sintetizzatori, dopo il digiuno forzato degli ultimi tre dischi.
Come già avevamo notato a proposito del precedente “Realism”, pochi autori contemporanei possono rivaleggiare con l’abilità (vagamente paranoica) di Merritt nel confondere confessione e finzione, verità e inganno. Pochi, soprattutto, sanno coniugare con altrettanta complessità artificio e bellezza. Dunque, dopo i due lavori speculari “Distorsion” e “Realism”, all’insegna di un colto bricolage metatestuale rispettivamente su noise-pop spectoriano e folk, “Love At The Bottom Of The Sea” ripropone una formula synth-pop ludica e caramellosa. Del resto Merritt non ha mai fatto mistero circa le proprie passioni giovanili per Bronski Beat, Erasure, Thompson Twins, Alphaville, Kajagoogoo o Fiction Factory, e molte delle canzoni ormai ascrivibili al suo repertorio storico ben lo dimostrano. Il bubblegum-pop che Merritt predilige presenta tuttavia abiti low-fi, studiatamente lisi e sdruciti, che brillano di luce sgranata. Un pop iniettato di tenue e puerile elegismo, in punta di sentimento, (che verrebbe quasi voglia di definire proustiano), accende pezzi come “I’ve Run Away To Join The Fairies” (in sostanza un Lee Hazlewood remixato dai Saint Etienne, tra i vertici del disco, al pari di “I Don’t Like Your Tone”), così come le non meno dolci “The Machine In Your Hand”, “I’d Go Anywhere With Hugh” o “The Horrible Party” (queste ultime due interpretate dalla fida Claudia Gonson).
Se ogni artista lavora incessantemente, canzone dopo canzone, alla costruzione di un personaggio, Merritt ha scelto per sé la maschera del robivecchi a caccia di cose che non esistono più, del timido filatelico alle prese con la collezione incompleta dei propri fantasmi (sentite “Born For Love”). Per un solo, interminabile, pomeriggio la sua musica bislacca rimette in movimento il Luna Park di un’infanzia della vita che ci chiede di salire a bordo per un ultimo giro. Il costo del biglietto? È semplice: la sospensione dolcemente temeraria di ogni incredulità. La band di “Love At The Bottom Of The Sea” costruisce e organizza la sua fantasia compositiva in piccoli prodigi della meccanica, congegni a manovella che si muovono come caricature clownesche, con passo vagamente sinistro e sempre imperfetto (sentite “Quick!”). Quella che ci parla è la voce di un uomo che non ha mai smesso di essere un bambino, che guarda il mondo senza ignorarne la tragica miseria, ma sempre attraverso una casa di specchi che deforma fisionomie e significati fino alla dismisura del grottesco. “Love At The bottom Of The Sea” è dunque un altro libro di fiabe, il diario di un sublime mentitore che rende più sopportabile la nostra solitudine (“All She Cares About Is Mariachi”).
Alla memoria di Lucio Dalla (1943-2012) l’autore dedica con affetto:
“Balla balla ballerino/ tutta la notte e al mattino/ non fermarti./ Balla su una tavola tra due montagne/ e se balli sulle onde del mare/ io ti vengo a guardare.”
70/100
(Francesco Giordani)
8 Marzo 2012