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Il primo pezzo di “Mr Impossible” s’intitola “Pinball Wizard”, come quello degli Who, e sembra veramente di essere lanciati, schiantati, rimbalzati e sbattuti come palline da flipper in un rettangolo elettronico pieno di pericoli e meccanismi oscuramente semplici eppure così seducenti. Il ritmo dritto del brano si contorce attraverso increspature jungle e trance e drogatissime note di chitarra, stratificando effetti su effetti fino al tilt, dove il groove dei Funkadelic, le pazzie di Davis di “Around The Corner”, gli esperimenti di Merzbow e le distorsioni dei Cabaret Voltaire di “Red Mecca” si fondono in un unico incredibile mostro electro-rock. I richiami non devono far pensare a un album di derivazione.
Il gruppo newyorkese esprime ancora la consueta originalità e il proverbiale carattere. Qui i rimandi sono intelligenti e spingono all’approfondimento, critico ed estetico: le citazioni, se fatte bene, fanno bene. E soprattutto non mortificano il gruppo che le pratica. “Rodriguez” gioca ancora di più con la progressive trance, manipolando bassi e parti vocali, “The Jacker” reintroduce chitarra noise e liriche indie filtrate digitalmente, fino alla coda da acid funky rock, che nervosamente tenta la via psichedelica. Il singolo “Pigs” è pura anarchia sonora: rumori, beat grossolani, coltissimi riferimenti russoliani, scherzi witch house, melodia pop e sviluppi matematici. Tutto insieme e tutto omogeneizzato attraverso l’allucinata sensibilità dei Black Dice. “Spy Vs Spy” è un cut-up soul funk da b-movie anni ’70 trattato con sintetizzatori e tastierine cretine. Eccellente. In “Outer Body Drifter” il gruppo traccia i confini estetici di un punk rock in cortocircuito elettronico. Un viaggio spaziale tra polverose meteoriti idm, suoni allentati e ritardati ed echi scoppiati e catchy. “Shithouse Drifter” è un delirio sonico, persino ballabile. Con gli otto minuti e rotti di “Carnitas” siamo di nuovo dalle parti dei Cabaret Voltaire costretti in un gameboy. La finale “Brunswick Sludge” è un’esercitazione di alienante disco-kraut rock anagrammato e inquinato e poi riprodotto da una piastra nastro di un vecchio e scassato Commodore 64.
L’allegria procede parallelamente all’inquietudine. La sperimentazione è bilanciata dall’autoironia. Il gelo compensato dalla calda entropia musicale. Non mi stupisco più. Ogni album dei Black Dice è interessante, non comune, nonostante il gruppo mantenga sempre i piedi per terra, ricercando prima di tutto il divertimento e la produzione di musica adatta al live. Ultimamente va molto di moda ascoltare ex-noisers e pentiti indierockers cimentarsi con house dozzinale e hauntologia trash electro. I Black Dice non inseguono questa moda. Primo perché fanno di questi scherzi da anni e poi perché loro lo sanno fare davvero, fin troppo bene. E quando le cose vengono così bene, non possono certo essere state preparate a tavolino. Sarebbe diabolico.
80/100
(Giuseppe Franza)
27 aprile 2012