Share This Article
Ce l’ha messa tutta, Santi. Si è rifugiata in Jamaica con i vecchi amici Switch e Diplo e in più Dave Sitek dei TV on the Radio come produttori, ha manipolato un sacco di suoni partendo naturalmente – visto il luogo di incisione – dal reggae (o, meglio, dal dub) e lo ha contaminato con la street-culture tipica di NY e con disturbanze electro-jungle che sembrano confluire dal passato prossimo (dalla fine dei Nineties). Insomma, ha manipolato il suono del presente e del primo passato per costruire quello del futuro (anteriore). Ma l’attesa nel frattempo si era fatta spasmodica e lei si è dimenticata qualcosa per strada, qualcosa di importante: le canzoni. Non ha aiutato il paio di singoli fatti uscire prima di “Master of My Make-Believe”: due vere bombe, a detta del sottoscritto, che hanno aumentato le aspettative, crollate immediatamente al giro del primo ascolto.
Se infatti “Big Mouth” è il giusto mix di tribale con una specie di dub notturna, è “Disparate Youth” a far gridare al miracolo: una canzone che potrebbe essere il singolo dell’anno, un concentrato di wave caraibica mischiata con i tempi spezzati dell’incipit di “Charlie Big Potato” degli Skunk Anansie che trascinano immediatamente in altri luoghi e in altri tempi stranamente contemporanei, come se ci fosse un nostro altro sé in giro per i decenni e le isole a trastullarsi. Il raffreddamento arriva con gli altri pezzi: “GO!” (featuring Karen O), già edita, non è male ma pare essere più adatta ad un corso di videocassette in edicola di ginnastica-step, “God from the Machine” interrompe il ritmo dell’album senza alcun tipo di pathos, “Fame” aspirava certo ad altre vette ma in realtà fa canticchiare inconsciamente Lorna (“Papi Chulo”!).
Quando Santigold si ricorda che è importante avere per le mani una “bella canzone” e non solo buone idee di arrangiamento (che ha), ecco che riemerge: “This Isn’t Our Parade” ne è un esempio, piccola song tascabile e in cui l’invocazione (“Will you come down, will you come down?”) le conferisce l’aplomb di una sentita dichiarazione empatica, ma anche “The Keepers” in cui Santi gioca a fare Bat For Lashes. Ma non è ovviamente sufficiente rispetto a quello che ci aspettavamo. Mancano, a parte quelle citate, le songs che hanno fatto grande l’album di debutto, quando Santi si chiamava ancora Santogold e marchiava in modo indelebile quel 2008.
Poi sono passati quattro anni e Santigold doveva ritornare con maggiore spinta e con del materiale ottimo tra le mani, doveva essere la donna di riferimento di questo 2012, sarebbe stata perfetta. Invece sembra un po’ girare in tondo e anche le esibizioni viste non le conferiscono onore: quella del Coachella, ad esempio, piena zeppa di basi con lei e due tizie che fanno quattro balletti è piuttosto imbarazzante. Sarebbe stato meglio dimostrare di saper piegare la propria materia sonora incisa ai voleri di una band in carne ed ossa, con qualche inserto preregistrato, certo, ma con maggiore fisicità musicale.
Vabbé, ci ascolteremo in loop “”Disparate Youth” e fingeremo che “Master of My Make-Believe” sia tutto così, dai.
64/100
(Paolo Bardelli)
29 aprile 2012