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Vent’anni. Tanti ne sono passati dalla prima fatica discografica targata Jason Spaceman, quel “Lazer Guided Melodies” che scriveva un capitolo fondamentale della psichedelia anni ’90 ed entrava nella storia come opera prima di un artista capace di disegnare una parabola tanto personale quanto qualitativamente eccelsa. Per chi è abituato a pubblicare dischi a cadenza biennale, scriverne otto in vent’anni non suonerà esattamente sbalorditivo. Nell’ultimo quinquennio (arrotondando per difetto), però, Mr. Pierce non si è fatto mancare davvero nulla: una malattia quasi fatale e dei tour semplicemente stratosferici (“Acoustic Mainlines” e “Spiritualized plays Ladies And Gentlemen We’re Floating In Space”) inframmezzati dal disco del 2008, quel “Songs in A&E” che catturava con un’umanità da lacrime il travaglio di salute da cui è uscito. In assenza di best of tali da obbligare a rivolgere lo sguardo all’indietro, non si può quindi che accogliere il nuovo album cercando di valutarlo sia nella sua individualità che tenendo a mente gli episodi che lo hanno preceduto, perché l’evoluzione prodotta nell’arco della carriera sembra fare oggi i conti con una creatività su cui interrogarsi.
“Sweet Heart Sweet Light” è un disco onesto ma non molto di più, e lo scrivo non senza qualche patema vista l’adorazione e il rispetto nei confronti della sigla in questione. Si tratta di un’opera che ben poco aggiunge alla discografia di Jason, ma i cui difetti non vanno esplicitati solo da questo punto di vista. È un disco che mostra i segnali di una scrittura che si “siede” sui fasti passati, che innesca il pilota automatico e che raramente riesce ad avvicinarsi agli antichi splendori. L’ormai cinquantenne di Rugby vira su territori decisamente più easy listening, riprendendo in parte dall’album precedente le formule più semplici e dirette di un songwriting pop che cerca nelle atmosfere pompose di arrangiamenti orchestrali il mezzo per raggiungere quel climax che in passato portava a stati di trance assoluti. La produzione è, al solito, ricca e stratificata: il plus che manca, e non è cosa da poco, sembrano proprio essere le canzoni. Quelle chitarristiche soprattutto. “Hey Jane”, singolo con video da oltre otto minuti, non può proprio far gridare al miracolo nonostante le credenziali: cavalcata elettrica con reprise che punta sull’intreccio tra chitarre sempre più rumorose e cori gospel. Sulla carta tutto ok, nella pratica tutto troppo piatto – a maggior ragione quando il riff portante ricorda così da vicino quello di “I Think I’m In Love”. Se è vero che molti dei cavalli di battaglia a nome Spiritualized hanno sempre moltiplicato l’impatto nella dimensione live, sembra ugualmente oggettivo il ridimensionamento che i pezzi di chitarra si sono trovati a rappresentare negli ultimi album, non riuscendo a scollarsi di dosso l’idea che siano solo un’infarinatura di blues rock tirato senza quella componente emotiva che in passato faceva la differenza. D’accordo, gli Spacemen 3 hanno costruito le loro fortune sulla rielaborazione del garage in forma psichedelica, ma Spiritualized ha sempre manifestato la peculiarità di essere un progetto fortemente intriso di quell’anima eterea e spaziale che creava i suoi universi sonori senza il costante bisogno di ricorrere a bordate noise fin troppo palesi. Chiariamoci: canzoni brutte non ce n’è; molto poco ispirate, invece, sì. “Get What You Deserve” e “Headin’ For The Top Now” durano davvero troppo a lungo per quello che hanno da dire, e “I Am What I Am” suona semplicemente campata lì.
Veniamo quindi alle ballate, che costituiscono la gran parte del nuovo lavoro e che rialzano l’asticella – pur con degli obbligati distinguo. Prendiamo “Little Girl” e “Too Late”: sembra costantemente di sentire bozze di “Soul On Fire” stese e ri-stese col mattarello finché non ne esce un pezzo compiuto. Archi sempre in prima linea, soluzioni che sai dove andranno a parare: bello è un’altra cosa, certo, ma alla fin fine riescono a salvarsi. Altra storia per “Freedom”, che probabilmente potrebbe essere additata come la cantilena del lotto, ma che nasconde invece tutto quello che vogliamo da Jason: cuore e sincerità a profusione. Facciamo finta di non aver sentito “Mary” – un lamento che rischia di passare per strazio da dimenticare in fretta – e concentriamoci su “So Long You Pretty Thing”. Finalmente abbiamo trovato la quadra: game, set, match. Jason Pierce tira fuori l’agognato coniglio dal cilindro proprio sul finale e mi ricaccia almeno temporaneamente in bocca i giudizi affilati. Partenza quasi a cappella duettando con la figlia Poppy (e chi lo sapeva?) per un minuto scarso; cambia tema frullando tastiere, archi, fiati e persino un banjo per quella che è la solita preghiera al divino, in ginocchio braccia al cielo; costruisce infine un crescendo lento che esplode poi in un terzo tema che irradia luce e positività da accecarti completamente: ecco il pezzo che mancava e che ti rimette in pace col mondo o quasi. Volume obbligatoriamente altissimo, pura gioia ed estasi. Non mi sbaglio: l’epilogo tiene su tutta la baracca da solo.
Ebbene, Jason, nonostante tutto mi basta un pezzo per sapere che ci sei ancora e ti posso perdonare i passi falsi. Non posso darti la sufficienza perché da te mi aspetto sempre di più e non quattro idee esplorate in lungo e in largo; sappi però che so che sei vivo e ancora capace di colpire dritto al cuore. Ora sali su un palco e dimostrami che mi sono sbagliato su tutto il resto.
57/100
(Daniele Boselli)
20 Aprile 2012
1 Comment
David
Un po’ cattivo il commento su “Mary”. Io credo che sia una specie di tributo a “Mary, so contrary” dei Can. I “lamenti” alla fine sono uguali a quelli di Mooney… Cmq, per me gran disco…