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“Yankee Hotel Foxtrot”, quarto album degli Wilco, uscì negli Stati Uniti su etichetta Nonesuch il 23 aprile 2002, ma si tratta di una mezza verità. L’altra metà è aneddoto arcinoto: nel settembre 2001 l’album fu reso gratuitamente disponibile in streaming sul sito della band, diventando così uno dei primi esempi eclatanti di musica arrivata al pubblico prima attraverso Internet che attraverso i canali tradizionali.
Il motivo che spinse gli Wilco al debutto digitale è altrettanto avvolto dall’aura dell’evento epocale: il rifiuto dell’etichetta Reprise alla pubblicazione di un album giudicato troppo ostico e sperimentale e il conseguente licenziamento della band. Prima storia esemplare di come la musica nel secolo ventunesimo possa trovare la propria strada fuori dalle gabbie imposte dalle majors.
Ci sono poi i tormenti professionali e personali che agitarono gli Wilco in quei mesi. Dapprima la sostituzione del batterista Ken Coomer con Glenn Kotche, poi il conflitto crescente tra la visione sperimentale di Jeff Tweedy e del produttore Jim O’Rourke e quella più tradizionalista di Jay Bennett, all’epoca seconda forza creativa nella band, che sfociò nell’uscita dal gruppo di quest’ultimo.
Tante cose sono successe da allora, lo spauracchio dell’11 settembre è stato sostituito dalla depressione economica, gli Wilco sono diventati una prolifica e tranquilla band di mezza età, Jay Bennett non è più tra noi, gli album che debuttano in rete sono la norma, la discografia del XX secolo scricchiola dalle fondamenta. La musica di “Yankee Hotel Foxtrot” è ancora lì, e oggi vogliamo ricordarla.
La registrazione di “Reservations”:
“Il rischio che si corre con il nuovo disco dei Wilco è prestare troppa attenzione al rumore che ne ha anticipato la pubblicazione più che alla musica che contiene. Del resto è innegabile che “Yankee Hotel Foxtrot” porti i segni inconfondibili del disco di culto: il rifiuto da parte della Sire di pubblicarlo perché considerato troppo sperimentale, nonché il coinvolgimento nelle registrazioni di Jim O’Rourke, una figura chiave nella musica alternativa americana degli ultimi tempi. Così per appropriarsi fino in fondo di questo disco, bisogna scansare queste voci e dimenticarle. E poi immergersi completamente negli undici brani che costituiscono “Yankee Hotel Foxtrot”. Perché sono proprio le canzoni a rendere grande questo disco…
Così, dopo aver ascoltato tutto, si comprende che “Yankee Hotel Foxtrot” è in effetti un grande disco. Per le canzoni di cui è fatto e per nessuna altra ragione”.
(M&R, estratto della recensione apparsa su Kalporz il 27 maggio 2002, qui la recensione completa)
“Heavy Metal Drummer”:
Il suono di “Yankee Hotel Foxtrot” è un rimuginare da scantinato della mente, in cui si scende per cercare le tracce di cose rotte, sprecate. Le canzoni vi restano come impigliate, incapaci di sbocciare nel pop cristallino di “Summerteeth” ma proprio per questo in grado di entrare sotto la pelle come schegge di vita, come ferite. Nelle parole di Jeff Tweedy c’è la sua frustrazione nella ricerca dei fili slacciati della propria vita, lo sforzo vano nel cercare di decifrare segni del caso e ricordi come se fossero gli oscuri messaggi delle number radio citati nel titolo dell’album.
Per coincidenze quasi altrettanto indecifrabili abbiamo letto in queste note il nostro smarrimento di inizio millennio, anche se non eravamo americani e non avevamo un 11 settembre in casa: abbiamo visto frammenti delle nostre contraddizioni e meschinità, tra la voglia di spezzare il cuore a qualcuno e il bisogno di essere perdonati di tutto. Tutto questo senza sociologismi d’accatto, perchè alla fine sempre di canzoni pop si parla: a volte cupe come una notte insonne e altre svagate come il ricordo di metallari strafumati in qualche concertino estivo. Comunque belle a sufficienza da essere una promessa di redenzione di per sé, anche dieci anni dopo.
(Stefano Folegati, 23 aprile 2012)
23 aprile 2012
foto di Amber Barni