Share This Article
Il violino di Warren e una messe di distorsioni e organi sovrapposti, a dispensare psichdeliche chiavi per ipotetiche nuove porte della percezione. E’ la partenza del nuovo Dirty Three, dopo sette anni di silenzio discografico, con “Fornace Skies”. Cambiamento radicale? Già da “Sometimes I Forget You’ve Gone” in realtà (e per tutto il resto del disco) torna lo stile e l’ideale musicale del gruppo che conoscevamo, quella sorta di atipicità post rock che li allontana dal genere tanto quanto li avvicina ai suoi classici topoi, risultando però sempre la somma reale della cifra stilistica peculiare dei tre. Ok, è ancora è sempre il violino di Ellis a dominare, ma senza i giacigli di tessiture chitarristiche di Mick Turner e lo svolazzare beato, tra jazz (“Rain Song”) e math della ritmica di Jim White, non ci sarebbe motivo per sentirsi ancora ammaliati dal nono disco di un gruppo che, in fondo, da “Sad & Dangerous” non ripropone altro che se stesso.
Sarà che quel “se stesso” è insieme di intuizioni emozionali uniche e quindi funziona e funzionerà sempre, sarà che “Toward The Low Sun” si articola secondo una sorta di filosofia improv più spinta che in passato, sarà che proprio quei sette anni di silenzio (nonostante i miliardi progetti personali) fanno la loro parte, ma non si avverte stanchezza né noia al trascorrere dell’ascolto. E’ un po’ sapere che quel posto caldo e sicuro in cui amavate ripararvi dal freddo esterno è sempre gestito bene e, forse, non chiuderà mai, nonostante poi alla fine, una volta ristorati, si riparta per altri mondi e avventure.
70/100
(Giampaolo Cristofaro)
4 maggio 2012