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I Sycamore Age, hanno esordito con uno dei migliori lavori italiani usciti in questo 2012, nonostante una “carriera” personale di valore e di lunga militanza. Di seguito due chiacchiere con i “titolari” Francesco Chimenti, Stefano Santoni e Davide Andreoni.
Dato che la formazione è a tre, ma al disco hanno partecipato in tanti, come sono nati i Sycamore Age e si sono sviluppati sino a giungere alla formazione “tipo”?
Francesco, Davide: I Sycamore Age sono nati dall’incontro tra me e Stefano, poco dopo si è unito a noi Davide Andreoni, con il quale lavoravo già in precedenza. Ho avuto modo di conoscere Stefano perché lavorava con mio padre, poi, poco più di due anni fa, andai da lui insieme a Davide per chiedergli consiglio su un demo che avevamo appena registrato. Stefano, rimasto colpito dalla mia voce e dalle nostre soluzioni compositive, mi ricontattò pochi giorni dopo per un incontro nel suo studio, senza avere nessuna idea in particolare. Così, un po’ per gioco e un po’ per curiosità. Dopo poche ore di libero sfogo creativo, ci ritrovammo tutti e due decisamente storditi del risultato: era nata “Binding Moon”, quella che ora è la prima traccia del disco.
La natura stessa del sound che si andava formando durante il lavoro sul disco, ci ha indirizzati verso svariate collaborazioni con preziosissimi quanto singolari ed eclettici musicisti, alcuni dei quali sono ufficialmente parte integrante dei Sycamore Age: Franco Pratesi, Giovanni Ferretti, Sam Mcgehee e Nicola Mondani. Tutti sono da subito entrati perfettamente in sintonia con la nostra filosofia, soprattutto durante la realizzazione del live. L’apporto prezioso degli ultimi arrivati ha reso possibile la scoperta di insospettabili e infinite variabili di arrangiamento possibili, nascoste tra le pieghe più remote dei brani da studio, rendendo il live marcatamente diverso dal disco, decisamente più impetuoso e più libero nelle interpretazioni.
Esperienze precedenti a questa?
Stefano: Rispondo io solo perché sono il più anziano e forse ho qualche piccola cosa in più da raccontare. Tutti gli altri hanno esperienze di vario tipo, dagli studi di conservatorio (ancora in atto) alle preziose ore di palestra musicale fatte nei vari garage di periferia con le più varie formazioni che, come sempre, si susseguono prima di imboccare la propria strada. Per quello che mi riguarda, tra le esperienze precedenti più significative annovererei sicuramente i Kiddycar, band che mi porto dietro dal lontano 1995 ma che si è definitivamente concretizzata dopo il 2005, in conseguenza dell’incontro con Valentina Cidda. Poi lo split che ho realizzato assieme a Christian Rainer, suggellato da un vinile intitolato “How This Word Resounds”. Sempre con Christian, è in programma una coproduzione anche per il suo prossimo lavoro, la collaborazione con Andrea Chimenti e infine le mie partecipazioni musicali finalizzate all’arte contemporanea, la principale con Loris Cecchini. Oltre ad altre mie collaborazioni nell’ambito del teatro sperimentale con la compagnia “Dulcamarateatro”.
I vostri riferimenti musicali dichiarati? E quelli che avreste voluto fossero rilevati, ma che nessuno ha “scovato”?
Stefano: Beh, se abbiamo deciso di andare avanti, fin dal primo incontro tra me e Francesco, è perché di riferimenti smaccatamente chiari ad altri ci è sembrato che, per fortuna, non ce ne fossero. Certamente, nella voce di Francesco, ho ritrovato immediatamente alcune sfumature molto vicine a Tim Buckley, benché lui stesso all’epoca non lo conoscesse ancora. Per il resto, ci siamo divertiti a spaziare con grande libertà e giocosità tra una miriade di generi passati e presenti, tali che dovrei stare qui a tediarvi elencando decine di nomi.
Per quanto riguarda invece la seconda parte della tua domanda, dal momento che sono già uscite una trentina di recensioni su questo nostro primo lavoro, direi che abbiamo un campione più che sufficiente per tirare le somme. Ad esempio, nessuno per ora ha nominato gli aspetti prog-folk, la componente psichedelica e, perché no, un certo “massimalismo” che noi sentiamo vibrare fortemente nel mondo di Sufjan Stevens e che ci hanno sicuramente influenzato molto. Poi, sempre della stessa scuderia, il grande DM Stith, che forse ci ha influenzato di più ancora con il suo sottostimato “Heavy Gosts”, capolavoro assoluto di quello che definirei “folk spiritico”, sicuramente i Grizzly Bear, per la loro capacità di unire canzoni squisitamente pop ad una raffinatissima ricerca sul piano del sound. Sempre tra gli “omessi”, devo assolutamente annoverare il blues misto ad un industrial di stampo vagamente casalingo del Tom Waits di “Bone Machine”, un industrial suonato – come, del resto, in alcuni episodi del nostro album – con pezzi di latta rimediati nel vicolo sotto casa, un industrial dal carattere decisamente più intimo e accogliente di quello delle acciaierie degli Einsturzende. Per chiudere, un riferimento sicuramente molto lontano ma che ci piace sognare di meritare: Scott Walker, principe ispiratore di tutte le voci da crooner, da Bowie ad Antony. In questo caso, confesso che, nel disco, abbiamo addirittura usato dei campioni ritmici rubati da uno dei suoi capolavori di sperimentazione, “The Drift”.
Passando al disco Sycamore Age, ci raccontate il processo di composizione e di registrazione del tutto?
Francesco, Davide: Ogni brano ha avuto una sua particolare genesi e ognuno è stato affrontato, di conseguenza, con un iter sempre diverso. La scrittura può prendere vita da qualsiasi cosa solletichi la nostra curiosità: una melodia o un ritmo, un’opera d’arte visiva, un film o un’esperienza vissuta in prima persona. Abbiamo più che mai cercato di seguire le esigenze del brano che stava prendendo vita e ciò che esso stesso ci evocava, piuttosto che il contrario, come di solito avviene, affinché il risultato fosse il più spontaneo e onesto possibile. Il primo approccio al lavoro spesso è stato individuale o in coppia, ma, subito dopo questa prima fase, abbiamo sempre lavorato tutti e tre insieme, mettendo un po’ di noi stessi in ogni nuovo paesaggio sonoro che andavamo ad esplorare. La maggior parte delle registrazioni sono state fatte nel piccolo studio di casa di Stefano, alcune anche in altre location, ma sempre di natura “casalinga”. Anche missagio e mastering, ad opera di Stefano, hanno avuto luogo nel medesimo studio. Tutto questo ha inevitabilmente condizionato tantissimo il sound del disco, conferendo allo stesso un carattere, a lunghi tratti, intimo e raccolto e, in generale, un suono sicuramente non convenzionale.
Pezzi preferiti o che sono stati sviluppati in maniera singolare rispetto agli altri?
Francesco, Davide: E’ veramente impossibile dirti quali siano i brani preferiti. Ogni brano è quasi come un figlio per noi, unico, con il suo personalissimo carattere. Ognuno racconta una storia a sé, singolare e incomparabile. Sicuramente alcuni di essi sono nati in modo più bizzarro e danno quindi adito ad aneddoti. Ad esempio, il brano “My Bifid Sirens”, si è sviluppato partendo dal suo ritmo portante, il quale a sua volta è stato generato prendendo a pugni una libreria ad angolo, oppure “Binding Moon” che, come già ti ho già accennato, è nata magicamente dal primo incontro in assoluto con Stefano. Infine, ma ne avremmo davvero molti altri da raccontare, nella prima parte di “Romance” abbiamo usato, mestoli, taglieri da cucina, fino al ticchettio di una lampada strobo comprata in un negozio cinese e, nella seconda parte, decisamente più irruenta, Stefano ha preso a mazzate la sua vecchia lavatrice.
Ma come mai proprio l’era del sicomoro?
Stefano: Non ci siamo posti il problema del nome del gruppo se non a lavoro finito. Eravamo sicuri che, quando avremmo finito il disco, sarebbe stato lui stesso a suggerircelo. Così è stato. Tutto è partito dal suggerimento di una nostra amica riguardo all’albero del sicomoro. Il sicomoro è un po’ la pianta del passaggio, la pianta che unisce i confini, sia in senso geografico che simbolico. Unisce il nostro mondo con l’oriente, crescendo in tutta l’area mediterranea, dall’Italia al nord Africa, all’Asia minore. Unisce la vita con la morte: in antico Egitto con il suo legno si costruivano i sarcofagi ed è anche l’albero sul quale si è impiccato Giuda. Dal momento che, in questo nostro primo lavoro, abbiamo cercato in un certo senso di cicatrizzare la forte nostalgia che abbiamo per un misticismo ormai perduto, forse per sempre, l’era del sicomoro come punto di partenza ci è subito sembrata perfetta. Un momento al di là del tempo e dello spazio in cui personaggi metafisici danzano agitandosi in nebbie simboliste. Un tempo in cui l’assurdo è la norma, un po’ come in un racconto di Carrol ma Sycamore Age è anche una seconda possibilità, un universo parallelo in cui c’è sicuramente molto più spazio per densi momenti di riflessione.
Che relazione c’è tra l’artwork e le tematiche del disco?
Stefano: Anche qui, stavamo cercando un soggetto per la copertina e, come sai, questa è una delle fasi più difficili nella chiusura di un album. Io ho lavorato nell’ambito dell’arte contemporanea e per fortuna non ho perso il vizio di girare per mostre. Ad uno show di Damien Hirst, ho rivisto un paio di suoi lavori fatti con le farfalle ed è stato un colpo di fulmine immediato. Ovviamente ho evitato, per buon senso, di cercare di contattare quello che è forse il più grande artista vivente per chiedergli una concessione. Quindi, ho riprodotto il suo splendido lavoro in forma grafica, ricreando però soggetti originali. Abbiamo scelto quest’opera, per la fortissima relazione che ha con il mood in generale del nostro lavoro, sia riguardo alla musica che ai testi: caleidoscopico, gotico, ipnotico, onirico, psichedelico, fortemente riconducibile al naturalismo ottocentesco. Le farfalle raccontano anche di un feticismo antico, quando si raccoglievano in macabre collezioni, dato che anche questa immagine ci piace molto. Le loro ali si sono formate per attrarre i simili e per spaventare i predatori al tempo stesso e, ciò che emana il coesistere di queste pulsioni opposte, ci cattura e ci incanta come bambini.
Riallacciandoci all’inizio intervista, come funzionano live i Sycamore Age?
Francesco, Davide: Secondo noi, ogni contesto o circostanza richiedono un approccio differente nell’esecuzione e nell’arrangiamento dei brani. Per questa ragione il nostro live, come già detto poco prima, è il risultato di una rivisitazione dei brani del disco molto più energica, ricca di suoni rinnovati e delicate sfumature dall’altra. Proprio per questo le fila della “tribù” Sycamore Age si sono infoltite nella preparazione delle performance, arrivando a sette elementi. Per descrivere al meglio il sound e di conseguenza il mood di ogni brano, utilizziamo strumenti di diversa natura, spesso inusuali: da una tromba tibetana a un apparecchio audiometrico da ambulatorio, da una conchiglia ad un contrabbasso elettrico degli anni ‘50, fino a synths e stumenti a fiato di ogni genere, bouzouki, theremin e altro ancora. Il concerto si traforma così in un vero e proprio rito, che, speriamo, essere capace di rianimare in scena quel circo di anime che già vagano inquiete in questo nostro primo lavoro discografico.
(Giampaolo Cristofaro)
14 maggio 2012
foto di Gabriele Spadini (www.flickr.com/photos/gnabra/)