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Secondo album della coppia franco-maliense, encomiabile esempio di contaminazione che svela come generi apparentemente distanti condividono porzioni cruciali di dna. Per cui jazz e afro-beat si fondono in un miscuglio ancestrale di pregevole eleganza. E chi sono i protagonisti di questo fulgido esempio di armoniosa conquista? Il balafonista Lansiné Kouyaté e il vibrafonista David Neerman.
Non stiamo dicendo il chitarrista, il sassofonista, il trombettista, il batterista e via di seguito come siamo abituati quando parliamo dei musicisti riferendoci alle gloriose armi che hanno tracciato la storia del jazz. Ma parliamo dell’arcaico balafon, e del suo modello evoluto, il vibrafono. Uno legnoso e grossolano, l’altro levigato e femmineo; l’uno dal suono ovattato che si nutre di se stesso senza echi e riverberi, l’altro dal trillo elettronico che si smaterializza grazie a processori ed effetti. E caspita! Entrambi ci insegnano che il jazz lo puoi fare anche con un tubo dell’acqua, perché il jazz è un’attitudine, è un amore inspiegabile per tutto ciò che è musica, che è ritmo, che è vibrazione, l’amore gravitazione che ci tiene legati alla Terra stessa. Non importa cosa usi per esprimere quest’amore, ma conta con quanta sapiente conoscenza del ritmo sai fare risuonare anche le pietre.
E questo vale anche quando non si ascolta un capolavoro. Anzi, ad un orecchio distratto “Skycrapers & Deities” suonerà monotono, a stento capace di essere qualcosa di più di un buon lounge jazz. E certamente non catturerà e non stupirà come il precedente “Kangaba” (2010). Ma questo lavoro ha il pregio di dare vita in ogni brano a veri e propri trattatelli a sé sul ritmo e le sue variazioni infinite, con momenti di limpida esecuzione, vedi “Toumbéré” dove a inseguirsi e tenersi sono due metodi ritmici caratterialmente distanti che la velocità crescente congiunge mirabilmente, ma anche momenti meno riusciti, come per esempio il debole “Un Soleil Noir Sur Le Déclin” che dopo incerte contemplazioni e divagazioni, ritrova però la strada attraverso un ritmo funky galoppante.
Su tutti svettano brani come “Kalo Dié” un ben venuto nella foresta di cristallo, nel quale su uno spesso e quieto tappeto dub di basso e batteria saltellano come gazzelle il balafon e il vibrafono, “Requiem Pour Un Con” con una batteria schiacciasassi che pesta i piedi ai guizzanti idiofoni, la fiera “Le Commissariat” dai tempi scattanti e quadrati da metropolitana che riesce a organizzare il suo casino, e “Phalénes” psico-onirica navigazione nel cosmo.
Lo so: nessuno è perfetto, ma vale comunque la pena scendere nella foresta di cristallo, alla fonte della musica, e riascoltarli.
64/100
(Stefania Italiano)
15 maggio 2012