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Meglio tardi che mai. I “dispersi” My Bloody Valentine, padri fondatori dello shoegaze, battono non uno ma tre colpi. L’insperata reunion, un tour lungo due anni ed ora questa doppia raccolta a mettere ordine in una discografia che, tolti gli insuperabili “Isn’t Anything” e “Loveless” (usciti da poco in edizione rimasterizzata), appare piuttosto frastagliata e difficilmente reperibile.
I My Bloody Valentine hanno creato nel triennio Creation Records 1988-1991 uno standard di riferimento per generazioni a venire, come avevano fatto a loro tempo Sex Pistols e Joy Division. La rivoluzione apportata da queste avventure musicali è tutta nell’approccio e nella forma; come per l’energia che non si crea né distrugge ma si trasforma. Le influenze della band irlandese sono tangibili – Velvet Underground, Dinosaur Jr, Jesus and Mary Chain, Cocteau Twins – e la loro è una musica evidentemente emozionale che crea un fortissimo legame con l’ascoltatore, sia positivo come negativo. In tal senso porto a conforto di questa tesi due esperienze personali indelebili. La prima risale ad una decina di anni fa, quando provai ad ascoltare in cuffia l’intero “Loveless” in una passeggiata notturna nel quartiere della Defense di Parigi, con effetto “Lost in Translation”; la seconda è più concreta e definitiva, il gruppo dal vivo all’edizione 2009 del Primavera Festival di Barcellona in quella mezz’ora di improvvisazione caustica a 130 dB ribattezzata “The Holocaust Section” in “You Made Me Realise”. Cosa (mi) resta dei My Bloody Valentine? Stordimento, alienazione, estasi, incubo… Amore o odio. Non c’è posto per gli ignavi.
Chi ha avuto la fortuna di vederli dal vivo ha scoperto un lato nascosto e fascinoso della loro musica, perle “minori” ivi contenute che farebbero se non hanno già fatto la fortuna di molti gruppi. “Thorn” ha ispirato alcune canzoni dell’album di esordio di The Pains of Being Pure at Heart, “Drive It All Over Me” ha fatto scuola a Lush e Sleeper negli anni novanta. Il primo EP “You Made Me Realise” (febbraio 1988) ad apertura del disco risulta il più eterogeneo, con una title track grezza e potente alla Sonic Youth e “Slow” che ricorda i Beatles più psichedelici. “Cigarette in Your Bed” è un prezioso indie-pop in chiave semi-acustica con un irresistibile cantato di Bilinda Butcher. Pochi mesi dopo escono parallelamente “Feed Me With Your Kiss” e “Isn’t Anything”; le tre relative B-side sono più cupe e nervose senza raggiungere la perfezione nei contenuti del loro singolo di riferimento, un torrenziale rock’n’roll con un drumming straordinario di Colm O’ Ciosoig; hanno però il merito di ravvivare l’immagine dark degli esordi e di completare le scalette live del periodo.
“Ep’s 1988-1991” è un collage necessario di una produzione non trascendentale e descrive cronologicamente l’evoluzione di una band dalla fervida creatività. Con l’Ep dell’aprile 1990, “Glider”, inizia la fase del gruppo nota ai più, un ibrido di pop, glide guitars esasperate, space-rock e trance ipnotica. Elemento quest’ultimo fondante di “Soon”, manifesto sonoro perfetto per la scena dei rave; “Glider” è decompressione del brano sovraccitato in stile industrial edito in due versioni di cui una mixata da Andrew Weatherall (poi produttore di “Screamadelica”) lunga dieci minuti. “Off Your Face” chiude il primo dei due dischi, da confrontare con “Disarm” degli Smashing Pumpkins.
Il secondo CD si apre con la riproposizione di “Tremolo”, uscito ad inizio 1991. Più ardito dei precedenti, l’ultimo Ep dei MBV presenta quattro brani diversissimi tra loro che a tratti ricordano Syd Barrett, gli anni sessanta, il Kraut-rock. “To Here Knows When” suona perfetta per lo Space di Ibiza e per una ipnosi collettiva fino al minuto 4.42, quando si trasforma in un mood tra sperimentale ed etereo (Brian Eno?) per poi diventare “Swallow”, una nenia dal sapore indiano fino alla coda più psichedelica. “Honey Power”, molto gettonata anche dal vivo, è un altro brano tutto fuorché B-side, dalla voce della Butcher all’intreccio di Fender Jaguar che si scioglie nell’ennesima coda, la più bella mai realizzata dal gruppo; infine la rallentatissima “Moon Song” è la più shoegaze del lotto. Mancano sette pezzi, un tuffo nell’ignoto o quasi. Pazzesco che “Instrumental no.2” risalga ancora al 1988 con i suoi echi dub e jungle, mentre l’altro strumentale è un garage rock denso di feedback. Già detto di “Glider”, “Sugar” è un pezzo del 1990 poi retro del singolo “Only Shallow”, non irresistibile ma ben arrangiato. I tre brani inediti sono tutti risalenti alle session del primo album del gruppo e ne ritraggono la musicalità in bilico tra dark-punk e ruvido garage rock: si fa preferire “Good For You”, mutevole nella sua breve durata con un basso degno della miglior new-wave.
Operazione graditissima agli aficionados di Kevin Shields e soci, utile anche a neofiti ed appassionati di certa musica “altra”. “Ep’s 1988-1991” è come un dietro le quinte a teatro: non è un nuovo disco dei MBV ma un pezzo altrettanto importante della loro storia musicale.
(Matteo Maioli)
30 maggio 2012