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Essere a Roma e non vedere Piazza San Pietro. Essere a Brooklyn e non vedere i Black Dice. Sebbene gli scenari siano, prevedibilmente, agli antipodi. Tanto per cambiare, come buona parte degli eventi migliori promossi a Brooklyn, la location non e’ una location. Nel cuore di Brooklyn. Lontano dall’amena atmosfera boheme di Williamsburg, lo spazio del Secret Project Robot, che si dedica ad arti pseudo-contemporanee, e’ il prototipo dello spazio fatiscente riadattato. Per arrivarci ci si fa strada tra viali sconfinati realistici sfondi di sparatorie notturne, depresse pizzerie da film di Spike Lee, officine dismesse e fabbriche abbandonate. Un fascino a suo modo desolante fino a Melrose Avenue 381. L’indirizzo e’ tutto cio’ che basta per gli eventi piu’ sotterranei ed esclusivi di Brooklyn. La venue, un giardino per squat chic sorge in un’area completamente abitata da latinos indolenti adagiati sui marciapiedi ad ammazzare il sabato pomeriggio periferico. Nessuna insegna, nessun poster dell’evento. Ma tanta fiducia, anche quando da fuori si avverte soltanto il riecheggiare di un sound system reggae. L’evento infatti parte nel primo pomeriggio tra barbecue, anguriata e alternativamente cibo vegano. Fauna ovviamente variegata, that is ci vestiamo come cazzo ci pare. Ma ormai quasi non si nota chi sfoggia orgogliosamente un’orribile t-shirt rossa PIZZERIA ROBERTO, abiti lunghi femminili molto d’annata, camicie eleganti due o tre misure piu’ abbondanti o scarpe fluo abbinate con colori autunnali.
Il cielo minaccia pioggia, ma nulla scalfisce l’usuale puntualita’ quando la prima band di supporto, i Call Of The Wild si fanno spazio sul palco molto botanico del giardino (che di botanico ha poco). I Call Of The Wild offrono a una platea gia’ etilicamente avanti malgrado l’orario, un post-hardcore senza pretese. Doppia voce incazzata in un tripudio di fuzz poco originale, ma comunque godibile. Una batterista picchiaduro e gradevoli passaggi ai confini del thrash. A Brooklyn succede anche questo. Sale l’attesa per il secret show dei Black Dice. Il succo d’anguria corretto e’ gratis, le birre costano un’inezia. Immancabili Pabst Blue Ribbon o Tecate (la risposta hipster alla Corona), inossidabili status symbol della “scena”. E il cielo minaccioso come d’incanto tira giu’ l’inferno. Fortunatamente esiste uno spazio interno, molto raccolto. Arredato e decorato con la solita accozzaglia di intuizioni tra il naif e il visionario. Nel frattempo tocca agli Extreme Animals, altro nome sobrio e rassicurante. Ed e’ qui che viene il bello. Duo di un kitsch spropositato costituito da due apparenti (e forse effettivi) metallari indigeni. Accoppiata incredibile quella tra Jacob Ciocci, artista del collettivo Paper Rad e docente della Carnegie-Mellon University di Pittsburgh e David Wightman, PHD in arte a San Diego. La proposta musicale e’ un power metal alternato arricchito da assordanti soluzioni da game boy-techno. Gli Sleigh Bells riadattati per il Gods Of Metal.
La dissacrante cover di “Losing My Religion” (irriconoscibile) apre le danze e l’headbanging incessante di Ciocci. Istigatore di folle inquietante, non solo per il capello retrò da Slayer. Le orecchie ne risentono subito, trattenere le risate e’ difficile. Buon viatico per quello che verra’ dopo.
La pioggia si da’ tregua, ma il danno e’ fatto. Anche i Black Dice vengono quindi spostati all’interno con un cambio palco in velocita’ da pit/stop. Niente male come opzione. Il rischio che gli ultrasuoni della band di Bjorn Copeland facciano crollare una struttura originale, ma non cosi’ stabile e’ scongiurato dalla presenza di svariati poster di Black Dice e band affini accolte in passato dal Secret Project Robot. Erano i tempi del capolavoro “Beaches & Canyons”, esordio estremo nato tra tre studenti della School of Design del Rhode Island. E tuttora una delle opere piu’ rappresentative di una scena, quella di Brooklyn, che continua a resistere un decennio e passa piu’ tardi. Non piu’ sotto DFA, Bjorn e’ affiancato dal fratello Eric (gia’ con Avey Tare degli Animal Collective nei Terrestrial Tones) e ovviamente dal posseduto Aaron Warren, lo Steve Aoki dell’avant newyorkese. Luci purtroppo alte e non basse, ma dopo tanta attesa ci si accontenta. Sullo sfondo delle nuvole di cartone da asilo. Una vetrata offre uno scorcio della decadente Melrose Avenue. Il massacro insomma puo’ finalmente avere finalmente inizio.
Difficile, impossibile avere la percezione di ciò che avviene. I ritmi sono incredibilmente spezzati e destrutturati. I timpani vanno in difficoltà. Warren sputa versi persi nel frastuono. La platea un po’ ridotta ai minimi termini e scoraggiata dalla pioggia entra in uno stato di trance collettiva. Si rischia il colpo di frusta, ma è ardua reagire immobili all’assedio dei Black Dice. I brani (parola grossa) scorrono senza interruzione. Come i BPM oscillano senza una direzione. I bassi non danno tregua alla colonna vertebrale. “The Dream Is Going Down”, “Treetops”. Dal nuovo, ostico più che mai, “Mr. Impossible” colpiscono invece “Pinball Wizard”, “Pigs” e soprattutto “Out Body Drifter”. Tra rumorismo estremo e sabba dal retrogusto tropicale.
La proposta musicale del collettivo di Brooklyn, nonostante i recenti alti e bassi, si dimostra insomma inossidabile. Sembra ancora di avere davanti una riedizione da garage sordido dei Throbbing Gristle. Atmosfere da incubo, anima industriale mai doma. Con una stupefacente e singolare carica propulsiva da raver. Anche per questo lo show, nell’altrettanto singolare location, si trasforma in uno strambo rave da camera e a luci accese.
Con un adeguato impianto luci si rischierebbe forse la catalessi. Ma sono solo le sette di sera. E, in fondo, ci si può anche accontentare di poter raccontare, a Kalporz e ai posteri, uno spettacolo del genere.
(Piero Merola)
18 Giugno 2012