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Da quando comparve sulle scene quasi una quindicina di anni fa con il fortunato moniker Bright Eyes, Conor Oberst non ha mai smesso di far parlare di sé. Genio assoluto del folk rock moderno per alcuni, talento discontinuo e logorroico per altri, l’ex ragazzo prodigio ha saputo dividere i fan come pochi altri artisti contemporanei. Quello che è certo è che se il verboso cantautore statunitense avesse provato più spesso a comprimere la propria strabordante vena compositiva, evitando di costruire una canzone per ogni idea balenatagli in mente, ci troveremmo forse a raccontare una storia diversa. Tra innegabili picchi (“Fevers & Mirrors” e “I’m Wide Awake, It’s Morning”) e qualche palese passaggio a vuoto, il musicista di Omaha si è costruito invece un percorso artistico atipico, costellato da ben quindici dischi sotto diverse nomee.
Release numero sedici della sua prolifica carriera, “One of My Kind” nasce come soundtrack di un documentario che racconta la formazione della Mystic Valley Band durante i primi giorni del 2008 e il loro successivo tour. Il forte presentimento di trovarsi di fronte all’ennesima opera autoreferenziale di Conor Oberst sembrerebbe svanire una volta premuto il tasto play. Con il filotto iniziale di brani ci si trova infatti davanti ad alcune delle migliori composizioni registrate dal musicista del Nebraska da alcuni anni a questa parte.
La title track che apre il disco è una paginetta scarabocchiata di versi lamentosi, pregni di malcelata insofferenza, pallida nostalgia e rimpianti affogati. Il tutto viene rigurgitato fuori in folk-rock elettrico e nervoso che trasuda urgenza dal primo all’ultimo secondo. Colpo di fulmine.
Non si fa in tempo assorbire l’urto che “Gentelman’s Pact” ci catapulta in mezzo a psicosi autobiografiche, naufragate in mezzo ad un torrenziale stream of consciousness. Il nostro eroe si ritrova ubriaco a riflettere sulle proprie scelte in un corridoio pieno di specchi di un hotel di Las Vegas, mentre un ritmo spezzato per chitarra e voce fa presto spazio a un chorus criptico e liberatorio.
La sensazione a questo punto è che il buon Conor abbia finalmente ripreso la retta via, dopo alcuni anni in sordina. L’ottima cover dell’eterna hit “Corrina Corrina” (la versione di Bob Dylan resta ovviamente migliore, sia chiaro) e l’incalzante “Synesthete Song”, caratterizzata dalla consueta irruenza oberstiana, tengono alto il livello lasciando il passo alla bellissima “Breezy”. Dedicata all’arpista Sabrina Dium compagna di tour di Conor Oberst nel 2005 e scomparsa nel 2007, quest’ultimo pezzo vede il cantante di Omaha impegnato in un’interpretazione intensa e sofferta come in poche altre occasioni.
Considerando le prime cinque canzoni dunque, le premesse per un grande album ci sarebbero tutte. Del tutto inaspettatamente invece, l’ex enfant prodige del folk rock americano decide di riempire il disco con altri sei brani dei quali si fa davvero fatica a comprendere lo scopo.
Quando Conor lascia il microfono ai suoi comprimari Taylor Hollingsworth (nella a malapena sufficiente “Central City”) e Philp Schaffart (nei due a dir poco superflui vagheggi folk “Phil’s Song” e “ I Got The Reason#1”) la qualità dell’album ne soffre terribilmente.
Ciò che più sorprende in negativo della seconda metà di “One of My Kind” è, ancora più che il livello mediamente basso dei brani, la totale mancanza di coesione con la prima parte del lavoro. Non fanno eccezione la cover di Paul Simon“Kodachrome”, passabile ma del tutto fuori contesto, né le piatte “Normal” e “White Shoes”.
Davvero un peccato quindi, con una tracklist ridotta e senza alcuni inspiegabili colpi a salve questo “One of My Kind” avrebbe potuto essere tranquillamente una delle sorprese di quest’anno musicale. Così purtroppo non è stato, e lentamente si fa largo il timore che Conor Oberst abbia preso troppo sul serio i versi finali di una sua famosa canzone. “ I could have been a famous singer…but failure’s always sounded better…”
60/100
(Stefano Solaro)
27 giugno 2012