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Un concerto dei Portishead è come un film di Kubrick. Questa frase mi risuona in testa come un mantra da quando si era immersi nel groviglio di perfezione del live veronese della band di Bristol, e continuo a pensare che sia tutto lì, il segreto dei Portishead.
Il loro essere senza tempo di riferimento come gli arredi di “2001 Odissea nello Spazio”, il loro rigore musicale controbilanciato dall’emozione che risuona nella voce, nelle pause e nei sospiri di Beth Gibbons come in una contrapposizione teorica tra il trasporto amoroso maturo di Humbert Humbert e la visceralità di “Lolita” (con in più la musicalità di Nabokov, “Lo-lee-ta: the tip of the tongue taking a trip of three steps down the palate to tap, at three, on the teeth”), l’ossessione che traspare dalla psichedelia adulta al pari degli spazi labirintici dell’hotel di “Shining”. E ad amplificare l’effetto filmico c’erano i filmati alle loro spalle: claustrofobici, simbolici, universali. Come la loro musica, che potrebbe essere stata scritta nel 1931 come nel 2071.
E quando, da metà concerto in poi, per la precisione da quella “Wandering Star” dal basso ripetuto e dalla chitarra spaziale, tutti si sono ammutoliti è stato come se un intera massa di persone trattenesse il respiro per sentire il respiro di Beth Gibbons. Ecco, a pensarci bene, cos’è stato il live dei Portishead: un eterno, splendido respiro. Come quello dell’universo.
(Paolo Bardelli)
Come senza vergogna confessato in sede di concerto al prestigioso collega che divide con me la recensione, scrivere una qualsiasi analisi sensata su un concerto dei Portishead risulta per il sottoscritto impresa alquanto ardua, soprattutto se non è concesso utilizzare iperboli o concetti metafisici. Se infatti, con Parmenide, si è convinti che esiste una via della verità e una dell’opinione, certamente i Portishead sono la verità.
Quindi facciamo così: una volta idealmente collocati nel campo della perfezione, nell’empireo musicale, parliamo dei problemi dell’esibizione. Primo: i volumi. Non certo quelli sentiti lo scorso anno al festival di Benicassim, dove il sottoscritto aveva avuto la sua “prima volta” la quale, come
vuole l’adagio, non si scorda mai. Secondo, ed essenzialmente unico punto realmente critico, un inizio un po’ “slegato”, di minor impatto rispetto al previsto, con il gruppo non ancora perfettamente registrato e compatto, nonostante la P che vibra sull’intro di “Silence” possa rappresentare il vertice di un’esistenza (non solo musicale).
E siamo al punto: un concerto dei Portishead è, si potrebbe dire automaticamente, il concerto della vita. Ma se la scaletta è praticamente identica a quella già sentita, e le sensazioni non possono evidentemente ricalcare quelle della prima volta, qualcosa di necessità viene a mancare. La replica del concerto della vita sembra così scadere in una sorta di sostituto, di doppio: una copia un po’ opaca dell’originale.
(Francesco Marchesi)
Scaletta:
Silence
Hunter
Nylon Smile
Mysterons
The Rip
Sour Times
Magic Doors
Wandering Star
Machine Gun
Over
Glory Box
Chase the Tear
Cowboys
Threads
Roads
We Carry On
29 giugno 2012