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I Walkmen sono come il vecchio amico che non vedi quasi mai, ma che è il primo a venire in soccorso se hai bisogno di lui. Hanno lo stesso fascino della vecchia casa in campagna che da ragazzino snobbavi, ma nella quale ora cerchi rifugio non appena puoi. Stanno lì in attesa nella tua collezione di dischi con le loro copertine sobrie, quasi old-school; non il massimo dell’attrattiva forse, ma se li scegli vai a colpo sicuro, puoi strane certo.
I cinque newyorchesi sono in giro da più di dieci anni ormai e, malgrado qualche fisiologica battuta d’arresto, sono ancora lì, sulla cresta dell’onda. La gioventù non sarà più dalla loro parte forse, come quando con “The Rat” e “Little House of Savages” scalavano le classifiche d’oltreoceano, attirando orde di adolescenti ai loro concerti, ma non è detto che il rock’n’roll possa dare il meglio di sé solo se ispirato da rabbiosa furia giovanile.
“Heaven”, il settimo album in studio dei Walkmen, non raggiunge forse i picchi toccati con l’espressionismo compositivo di “You and Me”, né i graffianti apogei di “Lisbon”, ma sa essere dannatamente affascinante. La penna di Hamilton Leithauser potrà forse non brillare di fantasia, ma è in grado come poche di tratteggiare i contorni di polverose cartoline dalle sbiadite tinte color seppia. La svolta verso un chanson-rock di matrice cantautorale, già preannunciata in alcuni passaggi di “Lisbon”, trova qui la sua completa consacrazione in una serie di pezzi che riesumano atmosfere da “rock’n’roll dei tempi che furono”. Magistrale in questo senso l’opening “We Can’t Be Beat” che, con Robin Pecknold dei Fleet Fooxes come ospite d’eccezione a chitarre e voci, entra subito nel cuore grazie al dolce cantato di Leithauser e alla liberatoria coda western.
Il frontman della band è sempre più mattatore assoluto, capace di esplorare con disinvoltura tonalità fino ad’ora sconosciute alla sua voce roca, come nell’affascinante ballata voce e chitarra “Southern Heart” o nel peana finale di “Dreamboat”. A tratti il leader dei The Walkmen pecca in autoindulgenza, come nel caso del falsetto insistito di “No One Ever Sleeps”, ma sono errori perdonabili a uno degli interpreti più incisivi della musica rock contemporanea.
Ciò che stupisce e intriga di “Heaven” è il connubio tra la pulitissima confezione sonora, dovuta anche alla sapiente produzione di Phil Ek (già dietro ai successi di nomi del calibro di Built To Spill, The Shins e Fleet Foxes), ed il suggestivo immaginario sixities evocato dai alcuni brani. Gli stridori doo-woop di “Heartbraker” e l’appassionata filastrocca “Love is Luck” sono elettrizzanti cariche di buon umore, e fanno dimenticare in fretta un paio di superflui riempitivi (“The Witch” e “Line By Line”).
La tradizionale estetica Walkmen, che ha permesso alla band di New York di racimolare adepti al di là e al di qua dell’oceano, è rintracciabile nella vibrante dedica di Leithauser alla propria figlia di un anno di “Song For Leigh”, nella febbrile invocazione di “Nightingales” e nei tre incandescenti minuti di “The Love You Love”. La seducente title track, merita infine un discorso a parte. “Heaven” ha tutto ciò che un fan dei Walkmen possa desiderare: un’intensa progressione di chitarra fatta su due corde di numero, una sezione ritmica protagonista ma mai invasiva, ed un refrain fatto apposta per essere cantato in coro a squarciagola.
Lontana anni luce da mode e correnti contemporanee, la musica dei Walkmen si “accontenta” da anni di proseguire per il suo singolare tragitto. Pur senza raggiungere l’eccellenza, “Heaven” è l’ennesimo brillante tassello di questo percorso personale, che si specchia compiaciuto nel traguardo da raggiungere. Ci piace pensare che quest’obbiettivo altro non sia che quello di toccare le corde del cuore dei propri fan.
In questo caso, cari Walkmen, l’operazione è riuscita.
78/100
(Stefano Solaro)
11 giugno 2012