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Hildur Guðnadóttir è una musicista di grande intensità poetica e infinita vaporosità estetica. Un ossimoro vivente. Ma ancora delicato. E pure quando smette i panni della contrappuntista per mettersi a fare avanguardia e ricerca dronica, la delicatezza permane. Lo sanno Pan Sonic, Mùm e Throbbing Gristle con i quali Hildur ha collaborato. Conoscono i fatti anche quei pochi eletti che hanno ascoltato i suoi due album solisti precedenti: “Mount A” e “Without Sinking”. Roba di alto livello.
Ora però si strofinano corde a me care… Registrato dal vivo a New York, “Leyfðu Ljósinu” è un esperimento elettroacustico di grandissima ispirazione. Giochi di luce e ombra, oppressione e liberazione. Silenzio e saturazione. Rumori, note dolenti di violoncello, pianoforte, voce ed elettronica. Tutto suonato e assemblato dall’islandese. Nel primo brano Hildur ci prepara all’abbandono con morbide carezze shumanniane.
Il meglio è condensato (si fa per dire) nei trentacinque minuti di stratificazioni del secondo pezzo in scaletta. L’inizio è minimale. Tendente a uno spettralismo di nuovo millennio (vale a dire contaminato da micro-elettronica). Poi interviene la voce, tagliata e cucita e reiterata, come un esicasmo o un’antica preghiera norrena. La musica si fa astratta, tende all’impossibile e il violoncello comincia a ingrossare la sua partitura, sovrapponendo nota ad accordo, bordone ad abbellimento. Nasce un drone ambientale al limite del dark, manipolato digitalmente. Un suono gravido di inquietudine e mistero. La linea melodica ammanta, rifluisce, si arresta. L’ordine si trasforma in apparente disordine. Il comune tende al sublime. Si sfiora qualcosa. Un messaggio, un sentimento. Un contenuto davvero importante. Si è dentro, fuori, che cazzo ne so! L’io puro fichtiano, l’intuizione emotiva, un infinito campo di damiane… Poi tutto si spegne. Come nulla fosse stato. Maledetti islandesi!
87/100
(Giuseppe Franza)
19 luglio 2012