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L’autoreferenzialità è una deriva che spetta di diritto solo a pochi eletti. Tra questi c’è naturalmente Lydon, che ha già fatto tutto e il contrario di tutto. Così lassismo, indolenza e paraculaggine diventano nei PiL valore aggiunto, termini di un post-postmodernismo illuminato.
Il nuovo album “This is PiL” ha quindi ragione d’essere, anche se alla fine non è minimamente paragonabile al vecchio catalogo del gruppo. C’è ancora il post-punk, tradotto in smorfie e linguaggio analogico, in confusione formale e proclami nichilisti. Ma c’è anche una nuova spiritualità. Più cosciente e coraggiosa rispetto al passato (il testo di “The Room I Am In” è in questo senso un manifesto).
Mancano Wobble e Keith Levene, mancano le canzoni micidiali, ma c’è tutto il resto… il veleno, l’angoscia, il senso del grottesco e del ridicolo, la molestia e naturalmente la personalità trascinante di John Lydon, che da solo porta a casa il risultato. Il gruppo fa il suo, senza metterci troppa anima o dannazione. Così i brani migliori sono quelli dove Lydon riesce a comunicare più di se stesso. Succede nei dub urbani di “One Drop” e “Must Be Dreaming” e nell’abbozzo dark-wave di “Water Deeper”.
Insomma, questi non sono i PiL… è Lydon. Accompagnato da tre mestieranti spettinati. Questa è la visione del mondo del padre-figlio-assassino-aborto del punk. Tutto il resto del disco suona rock, abbastanza stereotipato. La follia, l’estro, dipendono dalla voce, dalle parole che il cantante vomita ghignando, per rendere il tutto più contorto e deforme. Vere novità ce ne stanno poche. Gli innesti elettronici, le allusioni al nuovo hip hop e parodie blues non funzionano come potrebbero. Manca l’avanguardia che c’era nel Metal Box. Manca assai il basso di Wobble. Ma con “One Drop” si balla lo stesso.
(67/100)
(Giuseppe Franza)
27 luglio 2012