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Andare a vedere i Radiohead come si andrebbe a vedere una partita di basket. O di hockey. L’atmosfera che si respira a Washington prima dell’evento non è quella cui siamo abituati. Nulla a che vedere con quelli che in Italia sono diventati quasi dei luoghi di culto da Firenze a Ferrara. Nulla a che vedere con gli accampamenti di oltranzisti organizzati con turni militari dalla mattina. O più in generale con quel fiero fanatismo per i Radiohead che divide, ma sorprende come in pochi altri casi per la sua eterogeneità e imprevedibilità. Così in un’afosa domenica come le altre, con lo stesso spirito con cui si andrebbe a vedere il baseball sparuti gruppi di individui si dirigono verso l’arena. Rarissimi quelli con t-shirt a edizioni più che limitate della band si avviano verso le mille entrate del Verizon. Il Madison Square Garden di DC che a ospita i più grandi eventi sportivi e i concertoni della capitale americana. Ci si avvia presto un po’ per abitudine, o per sentire quell’atmosfera di anormalità da evento. E non solo perché Caribou, sarebbe programmato prestissimo. Un supporto di lusso. Una di quelle spalle che trascinano il classico detrattore dei Radiohead-maniac in frasi del tipo “Sai che ci andrei solo per lui, i Radiohead sono finiti”. Finiti o no, è fuori discussione che l’ultimo lavoro del geniaccio dell’Ontario sia una o due spanne superiore agli ultimi due lavori della band che supporta. Ma l’evento è l’evento, e il supporto resta purtroppo un supporto accolto distrattamente dai più. Così lo show di Daniel Snaith e soci, per quanto pirotecnico, si protrae per meno di tre quarti d’ora. Comunque folgoranti, come sempre. Con un compendio perfetto di “Swim” che si infrange nella perfetta acustica dell’arena. Non sarà artisticamente suggestivo, il Verizon, come le location scelte solitamente nei tour europei. Ma ha un impianto audio da multisala che fa la sua parte. “Leave House”, “Bowls”, “Odessa” e “Sun” assediano i sensi della platea. Aria di futuro nell’ultimo capolavoro di Caribou. Un affresco surrealista tra house e kraut. Fatto di arrangiamenti impeccabili e digressioni che annebbiano la mente. Il tutto con dei motivi particolarmente catchy e vincenti. I nuovi Radiohead non hanno un’”Odessa” o una “Sun” per fare paragoni scomodi ma impietosamente realisti. “Swim” in fondo è un album che ha segnato come pochi altri i tempi recenti. E che sembra già poter resistere a testa alta alla prova del tempo. Snaith merita di essere qui e merita di essere accolto nel modo migliore anche in supporto alla leg europea dei Radiohead.
Sebbene qualcuno sembri sfruttare il momento per ingurgitare hamburger e french fries come se si fosse appunto baseball. Stare seduti in piccionaia pare una tortura eccessiva. Non durerà a lungo.
Il tempo di un trittico da ko da gustarsi dall’ultimo anello, come raramente può capitare in Italia in Europa. Si farà pur fatica a distinguere Phil Selway dal secondo batterista Clive Deamer. Il colpo d’occhio fa gelare il sangue. E non solo perché si scorge appena la discutibile coda di cavallo di Thom, risposta hipster a Steven Seagull. Sulle cui motivazioni e i relativi risvolti estetici si è aperto un lungo dibattito storiografico sulla messageboard internazionale della band. “Bloom”, una “Airbag” noise e poi “Kid A” liturgica ed eterea come nei momenti migliori. Difficile chiedere un inizio più equilibrato nella sua altalena temporale e sonora. Sintesi ideale delle diverse anime dei cinque. L’acustica rende l’impatto devastante. E gli oltre ventimila presenti impercettibili, quasi non pervenuti nel loro essere di gran lunga più posati di Codadicavallo e soci.
I presenti sembrano non resistere al fritto che con il suo aroma invade le tribune, così presto arriva il rompete le righe. Il che permette di guadagnare agevolimente anelli verso il basso mentre “Bodysnatchers” classico live ormai consolidato si rifrange contro le prime file. Stordite, immobili. Thom sembra meno loquace del solito, come se fosse l’Europa a ispirare la sua verve più dissacrante. Il fan purista dei Radiohead più dei classici, e a volte più dei pezzi dalla miglior resa live, pretende la chicca. La traccia inedita, quella che da più tempo manca negli annuari o quella che mai è stata suonata per seconda, o era stata sempre suonata nel primo bis di seguito a quell’altra traccia. Così la sinuosa strumentale “Meeting In The Aisle” in parte soddisfa queste voglie da collezionisti nerd.
Quanto il ripescaggio di “Go To Sleep” da un “Hail To The Thief” che quasi dieci anni dopo appare, album dopo album, sempre più sottovalutato. Ma a dire il vero attese e attenzioni maggiori sono rivolte alla resa dei nuovi brani, quelli del controverso “The King Of Limbs”. Complesso, ma privo, “Bloom” a parte, di guizzi dalla portata storica. Ottimo nella sua prima parte, un po’ a basso profilo e annacquato nei brani meno spigolosi. Ci si chiede, soprattutto quando arrivano, una di seguito all’altra, perché l’intensa “Staircase” (un “Arpeggi” 2.0 potenziata) non sia stata preferita a “Codex”. Suonata poco dal vivo, quest’ultima, sul palco un po’ perde monotonia. Da “Videotape” parte seconda, che potrebbe essere poi Ballata di Thom in accordi minori, dal vivo si trasforma. Offrendo una delle fasi raramente solenni nell’arena di DC. Sarà il raggelante silenzio del Verizon su cui si liberano gli acuti di Thom. Sarà il gusto della chicca. Anche l’altro outtake dall’ultimo album, l’r’n’b psichedelico di “Identikit” si dimostra coraggioso e interessante. Anch’essa forse ingiustamente accantonata. La scelta della formazione a due batterie, poi, ancorché ambiziosa si rivela azzeccatissima. Sentendo i due all’opera (e finalmente distinguendoli da vicino) nell’apocalisse di “The National Anthem” e nel sabba di “Morning Mr. Magpie” (brano top del live) verrebbe da chiedersi quali esiti avrebbe avuto qualche tour fa una soluzione del genere.
Meglio pochi rimpianti, i sei sono in stato di grazia e l’eccessiva quiete della platea, molto spettrale, permette di godersi il concerto come a teatro. Senza isterismi o applausi fuoriluogo, karaoke né proverbiali rompicoglioni da concerto. Nemmeno l’ultimo singolone corale “Lotus Flower” offre scenate. L’educazione del pubblico non cela scene di visibilio, senza gag da tramandare a posteri e collezionisti di aneddoti singolari.
La normalità si respira anche nell’accoppiata “The Gloaming” e “Feral”. Uno dei momenti più alti nello sfidare Caribou, in quanto a respiro contemporaneo di un certo livello. Luci, suoni e pulsazioni che alienano e atterriscono provando a guardare avanti. Un temerario, nelle luci accecanti, sembra sfidare la quiete della platea, reagendo ai ritmi. Ah no, scusate, è Thom. L’anestesia è solo parzialmente giustificata dalle ipnotizzanti luci verdastre al pari delle ritmiche straripanti dirette dal basso di Colin Greenwood. Poco da dire su Ed e Jonny (terzo batterista furente in “Bloom”, menzione d’onore), mai una sbavatura e la qualità dell’audio fa onore ai loro ricami sempre minuziosi. “There There” che chiude la prima parte dello show resta uno dei loro momenti di gloria.
Il primo encore non spiazza né delude. “You And Whose Army” é l’unico tributo da Amnesiac. Purtroppo. Il ritmo di “15 Step” convince, ed è solo in parte spezzato un po’ dalla sinfonica baldanza di “Supercollider”. E su “Paranoid Android” non ci sarebbe bisogno di soffermarsi su commenti di sorta, se Thom non sbagliasse una strofa. Momenti da tramandare ai collezionisti o semplicemente risate. I problemi semmai arrivano con il secondo encore. “Everything In Its Right Place scartata. Così come “Idioteque” accantonata dopo i problemi tecnici di Jonny nella data di due giorni prima a Newark, il che é una sorpresa non da poco. Viste le intenzioni poco dance della platea in fondo non é nemmeno un dramma. Pesa però la scelta di un trittico tutt’altro che d’annata. “Give Up The Ghost” in versione duo è uno dei brani deboli di “The King Of Limbs”. E’ il seguito à la Neil Young di “House Of Cards” ma funziona molto meglio se avulso dall’album. Ad esempio live. “Separator” dal canto suo il brano di fine album meno riuscito della storia della band. E infine “Reckoner”, piaccia o no, non ha ancora la statura della degna chiusura.
Ma per un live normale, in un’atmosfera fin troppo normale, in fondo, è giusto così. E, al di là del turbine di emozioni soggettivo ogni volta che si ha davanti la band più significativa degli ultimi decenni, la perfezione di uno show dei Radiohead resta di una normalità sempre disarmante.
Grazie alla loro inossidabile cura del dettaglio e al lavoro nell’ombra della crew e di gente come il povero Scott Johnson che di lì a qualche giorno perderà la vita nel crollo del palco a Toronto e che merita un saluto speciale.
Bloom
Airbag
Kid A
Bodysnatchers
Staircase
Codex
Meeting in the Aisle
The National Anthem
Nude
Morning Mr. Magpie
Identikit
Lotus Flower
Go To Sleep
The Gloaming
Feral
There There
—–
You and Whose Army?
15 Step
Supercollider
Paranoid Android
—–
Give Up the Ghost
Separator
Reckoner
3 Luglio 2012
(Piero Merola)