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Che merda è sta roba. E’ solitamente il primo pensiero che balena per la testa ascoltando Ariel Pink. Perché, anche nell’acclamato e “orecchiabile” “Before Today” del 2010 il confine tra disturbo delle orecchie e divertissement è sempre assai labile. Dopo un po’ di ascolti, altro dato comune della sua sconfinata discografia, si finisce per essere risucchiati nel suo vortice di non-sense.
Satiro lo-fi nell’animo fin dai tempi in cui passava i suoi cd inascoltabili alla Paw Tracks degli Animal Collective, il biondo californiano di origine ebrea e dai capelli sudici da Kurt Cobain degli anni Duemila, torna con “Mature Themes”. Album che a trentatré anni suonati sembra veramente l’ultimo appuntamento con la maturità. Un apparente ritorno al pop psichedelico d’annata, a metà strada tra la sua via alla canzone d’autore e piano-bar da wedding party di cattivissimo gusto.
Basta l’apertura di “Kinski Assassin” per farsi un’idea. La titletrack, i rigurgiti Sixties tra Zombies e Birds di “Only In My Dreams” dicono tutto e il contrario di tutto. Inaffidabile e dissacrante, eroe della bassa fedeltà nel suo inno “Pink Slime”, Ariel lascia ogni cosa volutamente al caso. Ma il suono è caldo e al solito molto omogeneo. Così anche senza alcun filo conduttore l’ascolto non è una tortura. Tra i consueti abominii dissonanti neo-zappiani (“Schnitzel Boogie”), dadaismo new-wave consapevole debitore di Devo e Tuxedomoon (“Early Birds Of Babylon” e “Is This The Best Stop”) e impagabili visioni voodoo-western (“Driftwood” e “Symphony Of The Nymph”), tra nitriti e flash da club Eighties, il ragazzo mancato di Beverly Hills dà un ulteriore saggio della sua attrazione innata per il kitsch in “Live It Up”.
I synth e i suonacci da nintendo fanno ogni tanto capolino come i coretti da telefilm anni Ottanta. Ariel Pink sa ammaliare, disgustare e stregare. Melenso, stonato, pretenzioso, spigoloso. Non fa alcuna differenza. Cercare di etichettarlo in qualche modo non porta da nessuna parte. Quanti cialtroni altrettanto efficaci esistono oggi in grado di offrire un finale con sette minuti e mezzo di rumorismo ambientale e una cover lieve e sofisticatissima di “Baby” dei fratelli Emerson? Se Beck fa uscire album solo su spartito cartaceo, non ci si può che accontentare, più umilmente, della presunta merda che si cela dietro al marchio Ariel Pink’s Haunted Graffiti.
Su queste pagine, Kalporz aveva dato sfoggio di raro pluralismo in una discussione infuocata scaturita da un articolo in cui si addossavano al fenomeno Ariel Pink facili colpe sui mali della musica di oggi e del pensiero unico di Pitchfork. Tra morale punk e gusto dell’orrido (vedi link), a quasi due anni di distanza, pare invece che il fascino della proposta musicale di Ariel Marcus Rosenberg resista. Molto più di altri colleghi contemporanei celebrati da una carta stampata sempre più stucchevole.
Ariel sembra rappresentare più che mai un volto dell’America musicale veritiero e autentico. In tutti i suoi corsi e i suoi ricorsi, in tutte le sue contraddizioni così degne di ilarità.
74/100
(Piero Merola)
27 agosto 2012