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Con buona pace di tutti i metallari più intransigenti, il doppio “Yellow And Green”, terzo album dei Baroness, è il passo innovativo del metal! Matematico eppure leggero, poderoso eppure scattante, metallaro eppure incatalogabile, un mix affascinante che rende “Yellow And Green” ascoltabile sotto infiniti punti di vista, dandoci il piacere di ammirare la potenza delle voci, un corale modo di interpretare i sentimenti più coraggiosi e muscolari, e un rock da eloquio religioso che si serve moderatamente dell’elettronica per espandere i suoi mezzi retorici.
I Baroness hanno preso quello che restava del loro sludge metal e lo hanno battezzato con un valente rimaneggiamento dei suoni che dimezza la distanza estetica dai gusti dei più. “Yellow”, il primo cd, ha suoni duri, inspessiti, merito anche della co-produzione di John Congleton, ma usati abilmente con la cautela di chi sta lavorando sulla forma e sul suo senso filosofico.
Dopo la spiegazione del “Yellow Theme” che verrà riadattato incessantemente in ogni brano senza essere più riproposto in maniera didascalica, possono convivere bordate stoner (“Take My Bones Away” e “March To The Sea”) corali e mi si permetta anche pop nella facilità con cui la melodia complessa, si badi bene, riesce a farsi assorbire, sperimentalismo atemporale tra disco e grunge (“Little Things”), psichedelia e hard rock (“Cocainium”). Come a dire che manipolare la forma significa manipolare anche il tempo e la percezione nostalgica che ne deriva. “Back Where I Belong” è lo scrigno dentro cui viene custodito il segreto di un simile sforzo. L’arpeggio della chitarra è straniante, scoordinato, mentre le voci effettate creano un senso di inafferrabilità in parte sfiancante in parte incoraggiante: è la memoria che si modula, che prova a trovare la frequenza per conflagrare. Con fluidità le chitarre, che tengono accordi alti e che si impegnano sullo stesso assolo, realizzano la modulazione cercata in un chorus che finalmente esplode nel cuore, liberatorio e doloroso nello stesso tempo, un miracolo di semplicità melodica e complessità espressiva che si acquieta nell’arpeggiare di un basso miracoloso, brumoso, sul quale si struttura una metrica del cantato commosso.
“Green”, cd invece più intimistico, possiede qualcosa, uno smalto fresco che ancora non puoi grattare via, che si asciuga lentamente, una nostalgia tarda e la potenza di cantare con forza quello che dentro ai cuori muore ogni giorno. Sarà anche per questo qualcosa ancora non fermo che però “Green” mostra falle di evidente e non più rimandabile stanchezza. Dopo lo springsteeniano “Green Theme” dalla solennità vibrante, e l’inno da heavy rotation “Board Up The House”, sembra con “MTNS” di ascoltare un b-side ripescato. Seguono gioielli intimisti di elettro rock come “Foolsong” e “Collapse” e il biblico “Psalm Alive” anthem rabbioso e visionario. Ma a questo punto è stato detto tutto. Ci si siede con un intermezzo southern che è poca cosa e se ci si rialza con la pompata “The Line Between” ormai è tutta fatica di buona volontà: la forza è esaurita!
Ma va bene anche così. I Baroness rimodellando la materia oscura del metal e lo spesso sentimento di una malinconia del tempo perduto realizzano un lavoro dalla coerenza interna ambiziosa, non sembrano mai brancolare nel buio, sanno quello che fanno ad ogni canzone. Anche quando ti ritrovi a interrogarti sugli ibridismi prodotti, in cuor tuo ridi perché quella cosa strana che stanno facendo ti piace, ti titilla. Non è deriva, perché ogni canzone resta potente, mai smidollata, mai spersa alla ricerca di un centro. I Baroness sono riusciti in qualche modo a far salpare la nave del metal, e “Yellow And Green” rappresenta le prime immagini di una terra del futuro offerta a noi. Metal? È metal, certo.
76/100
(Stefania Italiano)