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Entro in medias res senza preamboli: non è di senilità che si rendono colpevoli i Killing Joke in “MMXII”, ultimo lavoro da marmorea incisione degna di memoria lapidaria. L’assenza di quella drammaticità che a suo tempo esplose nell’omonimo “Killing Joke” (1980), fa sì che in “MMXII” il gioco equilibrista tra punk e new wave appaia logoro, e quello tra gothic rock e pop logorroico. Non penso però a senilità. Perché in fondo, è dai tempi di questa folgore inaudita che i jokers non sono più riusciti a replicare con la stessa sicurezza alle attese provocate, perdendosi negli alti e bassi biografici della band e in lavori privi di vere idee che si adattavano ai tempi. No, questa volta non chiamerò in causa la senilità. Quello che avviene a Jaz Coleman & soci avviene nella storia di miriadi di altri artisti, ed è peggio della meritata, naturale, struggente vecchiaia di un artista.
Già la open-track “Pole Shift” parte con un’atmosfera polverosa che non verrà più affrancata nei brani seguenti: tastiere eighties, voce effettata, chitarra crepitante simil-metal, drum machine rafferma, melodia sentita altre migliaia di volte. Identica cosa per il successivo “Fema Camp” dove quello stantio sospettato è ormai certezza, e pizzica naso e gola prima di un imminente starnuto. Nelle strutture ripetitive, da new wave collassata si celano melodie orecchiabili ma abbastanza banali. “Rapture” è la prova provata che a farla da padrone è espressamente un sound elettronico veramente misero, che nemmeno negli anni ’80 l’industrial più scalcagnato avrebbe proposto, ed il resto, voce disseccata, chitarre elettriche alcoliche, batteria che pesta indiavolata, sono una pantomima per ingannarci sulla natura della miscela.
“Colony Collapse”: clima alticcio che non scongiura il sapore “tappo di sughero” di sintetizzatori tirati fuori dalle cantine. “Corporate Elect”: hard rock d’impatto che avvalora la sensazione “MMXII” sia fatto per ricordarsi come suonava lo strumento, “come viene quel passaggio se faccio così e tu colà”! Quando inizia “Glitch” grazie all’intro maestoso, l’umore prende ancora coraggio… ma anche il seguente spiaggiamento del capodoglio: non ci voleva, perché a questo punto riesce a trovare strada libera un aggettivo che non amo usare. Brutto. Brutto. Brutto. Nemmeno da giovani confusi e senza raziocinio (possibile?) avrebbero ceduto all’improponibile, per tempi e risultato, disco dance di “Trance”, e in questo anonimato spaventoso il singolo estratto “In Cythera” – pur nella sua convenzionalità – è l’unico che riesca a ricreare un’atmosfera a suo modo seducente, l’unico pezzo riuscito dotato di comprendonio. L’unico. Il resto è posticcio, collassante riempitivo di un vuoto inestricabile.
Non me ne vogliano i fan, perché il mio – credetemi – non è un attacco ai Killing Joke. Il mio è lo sfogo bisbetico di chi non accetta che venga presentata come prodotto di artisti che non hanno più niente da dire – causa senilità – un’altra operazione, subdola e vincente: la “normalizzazione” della creazione artistica pilotata da un sistema annichilente, che lentamente mette a tacere gli artisti stessi. Il mio è uno sfogo, lo sfogo libertario di chi si arrabbia con loro, con gli artisti stessi, che per confusione o stanchezza si sono piegati a cooperare a questa oppressione che strappa loro voce e parole. Perché così facendo hanno collaborato a spogliare noi anche solo di una canzone leale e di cuore, collaborando alla nostra normalizzazione, alla nostra quotidiana, sottile, totale sottomissione.
55/100
(Stefania Italiano)
30 agosto 2012