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“Merriweather Post Pavilion” aveva lasciato il segno arrivando fino in cima a Billboard e trovando la quadratura del cerchio dopo otto album fatti di sperimentazioni ed esperimenti non sempre del tutto digeribili. Nel bene o nel male, gli Animal Collective hanno lasciato il segno su un’epoca. Icona (oltre che stereotipo) del firmamento indipendente contemporaneo, unisce a suo modo tutti. Nessun escluso. Simboli di Brooklyn senza essere di Brooklyn, i quattro sono tornati nel loro feudo meno cool, a Baltimora. E con loro torna l’ineffabile Deakin, il multistrumentista instabile e incostante che aveva abbandonato la nave dopo “Strawberry Jam”. Dopo tre anni gli AC fuggono idealmente da quella visibilità inaspettata e scomoda che ha segnato i loro ultimi cinque anni di carriera.
Le visioni multilayered del loro successo planetario tornano col loro volto inquieto, spigoloso e mai rassicurante. Ma senz’altro autentico. Come se il capolavoro non fosse mai arrivato. Come se “Merriweather Post Pavilion”, il loro affresco digitale da Beach Boys avariati del Terzo Millennio non fosse mai nato.
La lunga attesa finisce in una notte estiva quando i quattro decidono di mandare in diretta web un caleidoscopico video che ha per colonna sonora, pezzo dopo pezzo, il nuovo “Centipede Hz”. Ideale titolo che fonde la vocazione “terrena” e naturale a quella piega da deliranti menestrelli digitali che li ha sempre caratterizzati. Con la tribale “Moonjock” d’apertura e la schizofrenica “Today’s Supernatural”, già presentata dal vivo negli ultimi tour, hanno fatto subito punto e a capo. Dalla spazialità gli Animal Collective provano a riannegare in quelle viscerali danze urbane da tarantolati sotto acidi. Gli ultimi flebili vagiti eterei da Pet Sounds 2.0 sono stretti nelle mani (in)sicure di Noah Lennox, aka Panda Bear. Quando il tambureggiare e le accozzaglie sintetiche si attenuano, la vera anima sixties dell’eterogeneo quartetto si dà una tregua in “New Town Burnout” e “Oh Rosie”.
Nonostante il disagio noise e le esplosioni che tanto garbano a Geologist con le sue manopole e quell’aspetto da reietti, non mancano le peculiari allegre filastrocche alla loro maniera (“Applesauce” o “Father Time”). La voce singhiozzante ed effettata di Avey Tare è ormai un marchio di fabbrica, copiato su più fronti. I prodigi di sequencer e synth non la mettono mai in secondo piano. E, nonostante ai primi ascolti, l’impatto dei brani non sia folgorante come i passaggi clou degli ultimi due LP, la qualità non manca. Persino il pop-noise circense di Deakin, protagonista di “Wide Eyed” ha un suo perché. Sempre che ci sia un perché nei cinquantaquattro minuti di “Centipede HZ”, decimo capitolo della storia, il più lungo di sempre.
E, insieme alla “Pulleys” che pare ripescata da “Merriweather Post Pavilion”, “Monkey Riches”, pezzo più lungo della raccolta, è anche il momento più alto di quest’opera ostica, ma 100% Animal Collective. La chiusura a suo modo epica di “Amanita” pare riappacificare Lennox, Portner, Weitz e Dibb nel loro mondo incantato e fantasioso. “Amanita” sintetizza le diverse anime di una band che, per quanto possa dirsi giustamente amata, odiata, sopravvalutata o sottovalutata, resta la più significativa di un’epoca così sfaccettata, indecifrabile e così contraddittoriamente sospesa tra banalità e complessità.
77/100
(Piero Merola)
13 Settembre 2012
1 Comment
Claudio Fontani
Se mettiamo 77 a questo disco allora va bene tutto, qualsiasi cosa facciano loro…