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Terzo mondo ma anche terzo album (quarto se si considera anche l’autoproduzione a tiratura limitata di “Ghost Tricks”) dei Nuju. Un sestetto (Fabrizio Cariati, Marco Ambrosi, Giuseppe Licciardi, Roberto Virardi, Roberto Simina, Stefano Stalteri) dalle caratteristiche insieme complesse e piane, che non concede punti di riferimento certi all’ascolatore, lo convince di essersi perso per poi riportarlo a casa. Niente strappi e tensioni evidenti, solo cambi di direzione morbidi ma fintati, dal movimento circolare, che danno vita a un discorso musicale saldamente costruito, coerente, compatto e persuasivo. Al di sotto di questo terreno si nasconde un torrente sotterraneo, càrsico, che scava gallerie e grotte “concettuali” tutte da scoprire, rilevabili da una strumentazione che si affidi alla testa oltreché al cuore.
“Ho visto un uomo” inganna, pensi subito a qualcosa che suona vicino a Peppe Voltarelli o al Parto delle Nuvole Pesanti, ma poi ti accorgi, già con “Fuori gregge” e il suo riff di synth, che qualcosa non quadra. Progressivamente si infiltra una strumentazione meticcia che mescola vecchio e nuovo – bouzouki, mandolino e fisarmonica si incrociano con il synth – e i testi, densi di intuizioni acuminate, mettono in moto il cervello con una spinta dolorosa. Non si tratta di miscidanza stilistica, anche perché gli stili da fondere sarebbero davvero troppi. Per dirla alla Ian Fleming, Nuju vi serve un Vesper Martini “agitato, non mescolato”, dove i singoli ingredienti mantengono una loro individuale percettibilità, allineati in una calibrata gradazione di sapori e aromi tra folk e elettronica. Una ricca tavolozza utilizzata con gusto ed equilibrio, con eclettismo meditato e decantato che fa di “3° mondo” un album di grande compostezza. Ed è da questa compostezza che emerge a poco a poco l’incisività di parole affilate e precise come bisturi. Un esempio per tutti: “generazione […] costretta sempre a lavorare tra chi si rende servo della prepotenza, in assenza di prospettive, remando a braccia nude contro corrente verso nuove direzioni”. In queste poche parole è efficacemente condensata la difficoltà di vivere controcorrente rispetto alle logiche vampiresche del mercato e dei suoi schiavi, uomini e donne che annegano il pensiero critico nel buio mare dell’in-cultura capitalistico-mediatica. In un Paese “sprofondato sul lavoro” – in caduta libera come l’equilibrista di copertina, ormai quasi una mascotte per la band – l’artista è chiamato all’antagonismo, è una irrinunciabile spia d’allarme quando “le masse non scendono più in piazza, resto a casa e mi chiamo una pizza”. In questa funzione i Nuju hanno la rara dote di essere espliciti senza perdere in incisività.
Dopo “La rapina”, un rock da manuale accompagnato dall’organo vecchio stile di Gino Di Fazio, e “L’artista”, una bohème dalle inflessioni balcaniche e klezmer, si incontra un trittico elettronico – “Il furgone”, “Compromessi”, “Bastardi e pezzenti” – che non perde mai del tutto il contatto con le radici popolari: mentre però nel primo e nel terzo pezzo l’elemento “sintetico” sembra mimare più tradizionali movenze etniche, il secondo se ne discosta con più decisione, segnando l’apice ascensionale di un album che da qui in avanti fila via liscio sino al gran finale di “Come vorrei”, intriso di malinconico lirismo e intuito psicologico, l’eco di un accordo minore pizzicato tra gli interstizi dell’anima.
75/100
(Federico Olmi)
12 settembre 2012