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“Non smetteremo mai di cercare,
e alla fine di tutto il nostro esplorare
ritorneremo al punto da cui siamo partiti,
e conosceremo quel posto per la prima volta”
T. S. ELIOT
Fu qualche mese fa che i R.E.M. sigillarono in ceralacca notarile la scomparsa come band dal mondo tumefatto della musica che, in questo 2012, sembra non voler saperne di risorgere.
Scomparvero le lucciole, quelle volanti, verso la seconda metà dei settanta, e Pasolini, che forse era già morto, se ne doleva in qualche suo verboso scritto.
Poi scomparvero i vecchi che fischiettano Beniamino Gigli la mattina presto, in bicicletta, e fu la seconda estinzione di massa.
Dopo un’era geologica, si estinsero anche i R.E.M., e non ci restano che le loro canzoni incistate in una goccia d’ambra, musica trilobita.
Il loro errore fu: stipulare un contrattone cottimista con la Warner per un fottio di LP, come con una pistola puntata alla tempia. Lavorare in fretta non è proficuo, come insegna Gian Maria Volontè ne “La classe Operaia va in paradiso”: “Un pezzo, un culo, un pezzo un culo, un pezzo , un cu…”. Zac!. Risultato, una manciata di album, nessun capolavoro preso singolarmente, ma una quindicina di canzoni baciate dalla grazia e da una malinconia pensosa e mai greve (la vera cifra stilistica dei R.E.M.), che avrebbero potuto formare l’album più straordinario nella storia del rock.
Era il 1988, e il Dj ambizioso del Lido Dei calanchi mise su “Green”, e fu un satori pomeridiano, sotto le grinfie del sole di luglio: mi alzai dalla sdraio e mi ficcai sotto la consolle a chiedere lumi. Quell’estate fischiettai “Stand” e “Orange Crush”, fino a non poterne più. Erano gli anni finali degli 80’, dai quali nessuno usciva vivo, e i R.E.M. furono una stilettata in mezzo alle scapole e un salvagente lanciatomi in extremiis un mare di blatte.
Era il 1990, e Daniela mi regalò “The IRS years”, una compilation che riassumeva in primi anni dei nostri. Conobbi “Perfect Circle”, crebbi di 5 centimetri con “Fall on me”, mi uscirono stelle filanti dalle orecchie con “Cuyahoga”, ed erano stelle filanti di gioia. Divenni un vero uomo con “The one I love”, e rimpiansi la mia ragazza con “So central rain”, che prese il volo dopo un temporale estivo (di questo pezzo si narra che Stipe nel cantare “I’m sorryyyy” sia volato giù da una rampa di scale).
Era il 1992, e in pieno delirio grunge, Michael e amici uscirono con “Automatic for the people”. Album nero per antonomasia, intriso di malinconia e poesia, con archi arrangiati da John Paul Jones, ideale per adolescenti angosciati e ventenni resi imbelli dall’abuso di letteratura.
Ma era anche il 1993; e “Nightswimming” reca la pensata effigie di una ragazza con i capelli dorati, di una vecchia audiocassetta prodotta in Portogallo, in plastica giallastra, infilata nel mangianastri giurassico di una Y10 che ora se ne sta ruote all’aria in una qualche sfasciacarrozze, a prendere vento e sole.
Poi era il 1994, e “Monster” sembrò voler assecondare la nouvelle vague del rock di Seattle. Di quel disco non posso dimenticare “What’s the frequency, Kenneth?”, gioiello del palinsesto della discoteca Corallo, dove giovani donne e giovani uomini si recavano, molto spesso in bibita, nella speranza di fare “quartàsa”.
Poi era il 1995, “E-bow the letter” ha ancora il suono strano della A-14 percorsa con una lattina di birra tra le gambe, in un folle tira-e–molla tra caserma e casa. Con il Maresciallo che mi urlava: “Questa caserma non è un albergo!”.
Fu 1997, e la mia vita cambiava a Parigi ad una stazione della RER. I R.E.M. avevano perso Bill Berry e iniziava il lungo addio. Ma prima, qualcosa di completamente diverso: la superba “Daysleeper”, con la spot light puntata su questo disgraziato travet – dormitore di giorno – che la notte imposta, imbuca, trasmette e archivia. E quando il Stipe dice: “Ho pianto l’altra notte, non saprei nemmeno dire perché”, non potevo fare altro che immedesimarmi in quel pianto, e in quella notte. Non saprei dire perché.
Era il 2001. Mi viene in mente un camping con cani e hippies al Gargano, e l’11 settembre, quando rientrai in città, il primo pomeriggio, senza accendere la radio. Tutto sembrava frizzante e inquieto, e non sapevo nulla delle torri gemelle straziate dai bolidi argentei della American Airlines… C’era solo Stipe che cantava per me “This avalanche, I’m not afraid”. E invece tutto cambiò quel giorno, e ci travolse.
Era il 2005, e vedo Michael in “Leaving New York” guardare la voragine di Ground Zero scavata in un torsolo di grande mela. Mi viene in mente che li vidi cantare al Festivalbar, in Arena di Verona, mentre mangiavo una pizza solitaria nella pizzeria più dimessa di Reggio Emilia, accompagnato da un quartino di vinaccio bianco alla spina, la piccola gioia.
Era il 2008, e in Arena di Verona, quella vera, vedemmo i R.E.M. in stato di grazia portare sul palco “Accelerate”, che sembrava una promessa di rinascita e invece era l’ultima boccata d’aria prima di colare a picco, noi con loro, appesi al pennone.
Era il 2009, e di quell’anno ricordo solo il mio personale ground zero e le parole di “Sweetness follows”, che nel mese di maggio mi ritornarono spesso in mente: “Readyin to bury your mother and your father, what did you think when you lost another… oh but sweetness follows”. C’è sempre, anche nei momenti più assurdi, qualcosa di dolce che, gustato, è buono.
E’ il 2012, e i R.E.M. hanno messo la parola fine alla loro storia. Conoscendoli un po’, credo sia definitiva.
Mi aggiro orfano, di questi tempi. Dopo avere realizzato – c’è voluto qualche mese – che qualcosa mi manca davvero, qualcosa è cambiato. E non mi resta che impalcare questa Spoon River di ricordi, così mi distraggo un po’.
L’ultimo, bellissimo, singolo parla di “tornare al luogo cui apparteniamo”, il che suona come un epitaffio e una invocazione. Come si trattasse di rivedere il luogo per la prima volta, e rivivere tutto da capo (come dice T.S. Eliot). O come direbbe Michael, devo trovare il fiume, seguire la sua corrente fino al suo estuario, “I have got lo leave to find my way”.
Ma ora, mi si permetta un commiato vero.
In una nota di copertina a “the IRS years” Peter Buck spiegò come venne composta “Perfect Circle”: si trovavano tutti in una cittadina chiamata Trenton, New Jersey, credo durante un tour. Erano in pausa. Buck sedeva all’aperto, gli occhi posati sul tramonto. La sua attenzione venne attirata da alcuni ragazzini che giocavano a football, l’ultima partita prima che il sole calasse. Buck guardò sole, bambini e parco e, per un motivo che non seppe spiegare, si mise a piangere. A quel punto tornò da Michael e gli chiese di comporre un testo che descrivesse quella situazione, e Stipe compose “Perfect Circle”. Nella canzone non troverete ragazzini, parchi o tramonti, eppure è davvero tutto lì.
Here we go.
(Matteo Marconi)
6 settembre 2012