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Sono 4 studenti di Leeds, e stanno incuriosendo il mondo dell’indie pop, lanciati come promesse esplose con successo già al loro primo album, questo “An Awesome Wave”. Attrae l’attenzione anche il giochino del loro nome “Alt-J”, i tasti che sulla tastiera di un Mac danno il simbolo ∆ (delta) cioè cambiamento, perciò roba che ha fatto venire la bava alla bocca di molti, che si sono anche divertiti a far notare riferimenti letterari e cinematografici.
I ragazzi certamente ci sanno fare. Si muovono nel territorio di mezzo, fatto di chiaroscuri decisi che si incontrano in sfumature altrettanto decise cosicché è impossibile dire – come per un figlio che è il perfetto mix delle eliche genetiche parentali – dove finisca un tratto e dove si innesti un altro, se si tratti di alt-folk che si veste di world music o se si tratti di hip-hop che si amalgama ad un simbionte folktronico. Merito di innesti, frutto di un lavoro intellettuale di prova e riprova che alla milionesima dà i suoi risultati nella semplicità del gesto musicale. Ma attenzione a questo punto a scomodare i nomi dei grandi annunciando scalzamenti e detronizzazioni.
“An Awesome Wave” dovrebbe essere ascoltato per quello che è, un ibrido che sa intrattenere senza troppe pretese, direi con quattro brani di vero contributo: “Tessellate”, “Breezeblocks”, “Matilda” e “Taro”, con i quali approntano una loro personale nicchia, che per il momento pare una vastissima sala di ricevimento. Il resto delle tracce procede con una zavorra di vuoti e incertezze che alla lunga non possono essere trattenuti dall’alibi di voler “affievolire la tensione”: in brani come “Dissolve Me” o “Bloodflood” il poeta, come si suol dire, sonnecchiava, anzi no, dormiva proprio. La voce soul e nasale di Joe Newman (chitarra e voce) ibrido naturale nella nostra epoca di ibridi, ha la parte di comprimaria nel decretare il successo quasi a furor di popolo. Però cerchiamo di non fare gli isterici: la fusione di un Jeff Buckley raffreddato e un Youssou N’Dour invecchiato funziona a tratti, come nella radioheadiana “Something Good” e nella breve e mistica “Interlude 3” e urta negli altri tratti, come in “Fitzpleasure” dove su un tema di roboante distorsione ti pare di ascoltare uno stitico che sta per liberarsi.
Alcune canzoni sono piacevoli, si fanno canticchiare, a tratti commuovono anche. Esattamente come i melò che riescono a crearsi attorno un alone di successo a suon di eccitazione e che, quando la bolla esplode, restano striminziti come prugne secche. Calma quindi, e aspettiamo che la bolla delle lodi a tavolino faccia puff per vedere se gli Alt-J siano o no abbarbicati sulle spalle di giganti. Basta sempre poco per fare molto rumore per nulla.
63/100
(Stefania Italiano)
2 ottobre 2012