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Il Terminal 5 era un vecchio terminale portuario sulla sponda Ovest di Manhattan. A due passi dal Broadway e dall’Ed Sullivan Theater, lo studio di David Letterman. Dal rinnovamento del 2007, l’ex Club Exit, è diventata l’ennesima incredibile venue di New York: quattro livelli, quattro sale e un terrazzo. Riportando un po’ di scena in una delle poche aree di recente rinascita di Manhattan, Hell’s Kitchen. In un lunedì che più svedese (o Ikea-Pop) non si può, l’unica data newyorkese dell’attuale leg nord-americana di Jens Lekman. Dopo cinque anni di pausa, influenza suina, amori impossibili e relativi tormenti, lo Stephen Merrit di Svezia, ha rotto il silenzio con “I Know What Love Isn’t”. Un titolo, un programma. In una frase, un distillato di sensazioni di migliaia di cuori spezzati, indie e non solo. Fortunatamente tra un festival e un altro, ha dato segnali di vita dopo quella perla patinata e decadente di “Night Falls Over Kortedala”. A New York, aveva già suonato due volte quest’anno, e infatti non è sold out da mesi come succede spesso per nomi del genere nella Grande Mela.
Ma c’è dell’altro perché le danze (“danze”) sono infatti aperte da Victoria Bergsman, l’ex-cantante dei mitici Concretes, band simbolo del twee scandinavo che ha lasciato da sei anni. Cognome quasi d’arte e voce in uno dei tormentoni più ascoltati, cantati e soprattutto fischiettati della storia scandinava dopo gli Abba e gli Europe, “Young Folks” di Peter Bjorn & John. Tre album all’attivo con l’acronimo Taken By Trees per Victoria che offre una sommessa, oltre che dimessa esibizione di cinquanta minuti, tra folk vagamente dark e vellutate atmosfere. Algida, presenta in abito lungo il nuovo “Other Worlds”. Crea un silenzio agghiacciante con la sua voce che si fa fatica a confondere: “Vi divertirete molto di più con Jens”, quasi si scusa intimidita dalle sue stesse atmosfere. Ammaliante.
Alle nove e mezzo in punto, l’ormai trentenne di Goteborg guadagna i riflettori con un look da pescatore del Nord cool. Capello a zero che lo fa sembrare il volto buono di un Billy Corgan della porta accanto, cappellino con la visiera. E si parte subito con il nuovo singolo, e videoclip, “Become Someone Else’s”. Sempre metà strada tra piano bar di qualità e Magnetic Fields, lascia subito a bocca aperta per l’equilibrio degli arrangiamenti. Un basso, una batteria, tastiere, un violino. Nessun altro artificio, solo lui e la sua chitarra per un quartetto iniziale tutto dedicato al nuovo. La titletrack è il prototipo dell’indie-pop svedese d’alta scuola. Storie agrodolci, il sarcasmo di Jarvis Cocker anche nelle sfighe più assolute che riempiono i suoi racconti pseudo-sentimentali. Impagabile lo sguardo da misantropo con cui accoglie le dichiarazioni d’amore delle fan delle prime file Bionde connazionali e non. Si mette in posa per i flash dei fotografi del pit. Si scusa per i cinque anni senza suoi album sempre con autoironia tutt’altro che sottile. Nonostante i toni e le sfighe, un’ondata di positività non può che travolgere la platea.
Ripesca un nuovo outtake, l’orchestrale “Golden Key”, accantona il primo singolo “Erica America”, ma non importa a nessuno. I ricami delle due musiciste alleggeriscono l’aria. E quando all’inedito si lega “The Opposite Of Hallelujah” sembra veramente di volare indietro nei ricordi. Con un enorme sorriso sulle labbra. Il rocambolesco racconto jarvisiano del suo stalking alla Dunst in “Waiting For Kirsten” riporta sulla terra. E a una città in cui non esistono code per vip, dichiara orgoglioso Lekman.
“Maple Leaves” lo riporta indietro nel tempo, quando ancora non era nessuno ma le sue perle avevano già raggiunto il web e varcato i confini nella Scandinavia. La performance è irresistibile, priva di pecche anche nei momenti del nuovo meno ritmati. Ma presto squillano le trombe, e arrivano i fiati. Ci pensa la doppietta “Into Eternity” e “Sipping On The Sweet Nectar” a trasformare in un’imprevedibile scenario anni Settanta un Terminal 5 perso in seghe mentali fatte di ex-ragazze e ragazzi, occasione mancate e fallimenti esistenziali. Ci si smuove, ci si purifica dell’amarezza e via nelle danze. Che sono danze sul serio, perché è difficile resistere all’assurda combinazione di un kitsch retrò da Disco Seventies e Scott Walker. Pop tropicale di Svezia, che torna pop introspettivo svedese nel bis.
Ancora dallo stesso album, “A Postcard To Nina” con, a introdurre, la spassosissima storia della sua ex-ninfa tedesca, con la vivida figura del padre che mette sullo stereo un suo album al suo primo incontro con la famiglia di Nina. E poi, prima della chiusura a basso profilo di “Every Little Hair Knows Your Name”, una struggente “Pocketful Of Money”, altro pezzo fuori-album, accompagnato prima da uno schiocco di dita collettivo che rende improvvisamente lo show un momento gospel che lascia senza fiato e poi dal controcoro del preparatissimo pubblico. Che si ripete come un mantra nella notte, “I’ll come running with a heart on fire” Avrà una voce monotona, ma nel suo timbro inconfondibile e nell’esplosiva vena da cantastorie per cuore spezzati, Jens Lekman resta uno dei cantautori nel bene e nel male più significativi del nostro tempo.
I’ll come running with a heart on fire, I’ll come running with a heart on fire, I’ll come running with a heart on fire…
Every Little Hair Knows Your Name (intro)
Become Someone Else’s
I Know What Love Isn’t
The End of the World is Bigger Than Love
Some Dandruff on your Shoulder
Golden Key
The Opposite Of Hallelujah
Waiting For Kirsten
Black Cab
I Want a Pair of Cowboy Boots
The World Moves On
Maple Leaves
Into Eternity
Sipping On The Sweet Nectar
——
A Postcard To Nina
Pocketful Of Money
Every Little Hair Knows Your Name
1 Comment
Davide
meraviglioso report, davvero!