Share This Article
Il vino più invecchia e più è buono, i Graveyard, gruppo hard-rock svedese, giunto al terzo album (secondo per la Nuclear Blast Records), è un Chianti stagionato al punto giusto. Il retrogusto è sempre lo stesso, potente e verace, eppure colpisce nel segno. La proposta musicale offerta da “Lights Out” non si distanzia dagli album precedenti, i Graveyard ripropongono il jolly vincente, un hard rock con forti venature blues, stoner e psichedeliche. Una ricetta classica, quasi infallibile. I Graveyard la reinterpretano e rielaborano alla luce del presente. “Lights out” non è un disco passatista, le influenze del passato non sono lettera morta, rinascono e assumono una nuova anima, si rincarnano in una veste moderna. Non si tratta di una rivoluzione stilistica, nello stile i Graveyard si rifanno ai gruppi classici dell’hard rock e del blues rock e non c’è niente di nuovo sul fronte meramente creativo, non emergendo sul piano compositivo intuizioni originali o innovative.
Scarsa originalità non è però sinonimo di banalità, i Graveyard, a differenza di tante band hard-rock statunitensi, non ripropongono passivamente gli stilemi del genere, interiorizzano la musica degli anni sessanta, se ne impossessano maleficamente e ci riportano indietro ai bei tempi andati. Da bravi artigiani della musica, tra lacrime di sudore e occhi accesi dalla passione, illuminano la lampadina della manualità, sfornando canzoni ben fatte e prodotte ( “An Industry of Murder”, “The Suits, the Law & The Uniforms”, “Goliath”), perfette per muoversi a ritmo di rock’n’roll in un piccolo club, magari con una buona birra in mano. Non mancano poi i momenti mid-tempo per riprendere fiato e sfoggiare il lato dolce nascosto in ogni rocker, anche in quelli duri e puri (“Slow motion countdown”, “20/20 Vision”).
“Lights Out” si rivela una piacevole riconferma, cosa non da poco in un’epoca di carriere stroncate dopo il primo/secondo disco.
68/100
(Monica Mazzoli)
20 novembre 2012