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Ci piace immaginarli seduti insieme in una stanza, Justin Harris e Denny Seim, con un paio di birre in mano magari, a guardarsi negli occhi, incerti sul da farsi. Non deve essere stato facile, infatti, salutare senza rimpianti quel genietto di Brent Knopf, per molti l’anima del trio di Portland conosciuto con il nome di Menomena. Oltre ad essere l’inventore del celebre Deeler (software informatico usato per mixare jam e melodie diverse), Knopf rappresentava una forza creativa di non poco conto, autore di alcune delle composizioni più amate dai fan della band, come le splendide “Intil” e “Killemall”. Ciò nonostante il duo dell’Oregon non ha mai pensato realisticamente all’ipotesi di abbandonare il progetto Menomena, anzi, si è tuffato in un processo compositivo denso e prolungato, nel quale sono confluite memorie, ricordi e demoni personali di questa coppia di ragazzi, ormai trentenni. Il risultato di tale processo è “Moms”, un’opera viva ed emozionante, che non ha nulla da invidiare ai precedenti lavori targati Menomena.
La complessa formula espressiva che ha reso famosa la band statunitense viene declinata ora in una struttura musicale meno labirintica rispetto al passato. Le sottili geometrie compositive lasciano spazio ad un piglio più emotivo, che poggia le sue basi su una scrittura più immediata, ma comunque pronta a lasciarsi andare alle amate aperture barocche. Dei vecchi Menomena rimane l’arte della messinscena ed il gusto per il colpo ad effetto, quello che fa girare la testa anche all’ascoltatore più distratto, donando alla musica un sapore quasi cinematografico.
L’io narrante di “Moms”, come già accennato, esplora i ricordi e le sensazioni della propria nebulosa gioventù, concentrandosi, come il titolo lascia supporre, sulla centralità della figura materna: figura fondamentale sia per chi, come Harris, nella madre ha avuto l’unico punto di riferimento da quando il padre ha abbandonato la famiglia, sia per chi, come Seim, l’ha persa in tenera età.
La caratura dei Menomena rivela il suo valore proprio nel riuscitissimo connubio tra testi e melodie, un intreccio di impetuose strutture melodiche e di versi sofferti e personali, che dà spesso vita a veri e propri climax emotivi. Esempio perfetto di tale sposalizio è la travolgente “Pique”, con il suo intro torbido e rarefatto, prima che le chitarre vadano a disegnare dense nubi elettriche che esplodono presto in un drammatico crescendo. Un ruolo fondamentale nel disco hanno quindi le liriche, a tratti davvero commoventi, come in “Heavy Is As Heavy Does”, una struggente ballata che è un pugno nello stomaco sin dalla prima strofa (“Heavy are the branches hanging from my fucked up family tree, and heavy was my father, a stoic man of pride and privacy”). A firmare i due pezzi è Justin Harris, che emoziona con il suo intenso timbro vocale, della cui somiglianza con la voce di Damon Albarn si è già discusso in passato. In quanto a talento compositivo comunque, il collega Denny Seim non è certo da meno. Il polistrumentista si ritaglia uno spazio di primo piano, dando alla luce alcune delle composizioni più pregevoli della sua carriera: “Baton” è uno splendido tripudio di sinuose melodia di chitarre e organo, mentre la bella “Capsule”, dal sound quasi heavy, è uno dei pezzi più accattivanti dell’album.
I Menomena hanno il raro dono di saper emergere da architetture ritmiche audaci con armonie vocali che seducono al primo impatto, tanto da far apparire come estremamente naturali sviluppi melodici che in mano ad altri sembrerebbero ineluttabilmente artificiosi.
La seconda parte di “Moms” è meno immediata rispetto alla prima, ma il livello di scrittura non registra alcun calo. La band di Portland si abbandona in parte all’estetica che l’ha resa famosa (l’art rock di “Giftshoppe” e “Tantalus” ricorda i Menomena di “Friends and Foe”), concedendosi addizioni ed asimmetrie strumentali che rivelano un gusto per un certo sperimentalismo ricercato, mai del tutto assopito.
In conclusione “Moms” ci regala una band in forma smagliante che, malgrado la line-up ridotta, ha dato vita ad un album di grande valore, forse meno sofisticato e complesso rispetto all’ultimo bellissimo “Mines”, ma vibrante ed intenso. Se la strada futura è quella indicata dal prorompente lirismo di “One Horse”, brano che chiude questo disco, beh, non ci resta che accogliere con entusiasmo questi nuovi Menomena. In attesa delle loro prossime imprese.
80/100
(Stefano Solaro)
19 novembre 2012