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Se c’è una cosa che non ho mai mandato giù, quando ero piccolo e i miei mi portavano in chiesa senza possibilità di scelta, erano le messe delle sei di sera. D’accordo, quelle delle 21 erano ancora peggio ma credo di non ricordarne più di tre o quattro. Quelle delle sei oltre a farti perdere 90° Minuto erano letali: entravi con la luce, uscivi che era buio e tutto scivolava verso una nuova settimana di scuola. Con questo non voglio dire che la prospettiva di un concerto di Jason Pierce di domenica sera si portasse appresso un simile senso di pesantezza opprimente; certo è che, dopo tre nottate spese nella sempreverde isola felice chiamata Club to Club tra set di qualità e facce amiche, il senso di spossatezza che finiva per infettare anche i pensieri dipingeva nella mia testa scenari poco esaltanti. L’esperienza Spiritualized è davvero qualcosa che sa toccarti nel profondo, motivo per cui l’aver adocchiato qualche scaletta – incentrata per l’80% sul nuovo album – mi aveva fatto presagire una situazione pericolosamente cupa. C’erano quindi due possibilità: uscirne del tutto depurato e rigenerato nello spirito oppure piombare in un buco nero senza biglietto di ritorno.
Per più di un attimo è sembrato che la seconda opzione fosse quella più quotata: tra il gruppo di supporto – una band svizzera dal nome decisamente lungo e la proposta musicale assai discutibile – e la scarsa affluenza al momento in cui il nostro è salito sul palco sembrava il copione di un filmaccio che parte male e finisce peggio. Fortunatamente, invece, la sala si è riempita fino al mixer e il messia si è palesato per salvarci dagli affanni e restituirci la vita. Perché se è vero che i pezzi dell’ultimo disco non si segnalano per una scrittura ai massimi livelli, la sensazione che dal vivo suonassero più corposi e compiuti è ciò che ha dato al concerto il colpo determinante. Soprattutto nella prima parte, quando dopo l’inizio in crescendo di “Hey Jane” e le altrettante bordate di chitarre della ben più classica “Electricity” la scaletta ha pescato per la gran parte da “Sweet Heart Sweet Light”, l’insistenza sulle produzioni recenti rischiava di affossare lo show qualora non fosse stata provata la qualità del nuovo materiale. Il miscredente che era in me ha dovuto ricredersi in un baleno, accecato dal bagliore che si irradiava dal bianco della sua maglietta. Del resto, quando dopo un pezzo come “Headin’ for the Top” ribalti la situazione come se nulla fosse, creando in mezzo minuto di “Freedom” un’intensità talmente grande che ha del miracoloso, non resta che strapparsi le vesti e dire “Io ti seguirò”. Lì sì è capito che non sarebbe stata una domenica sera come tante, e pazienza se i dubbi su “Mary” non sono stati fugati del tutto. “Ladies and Gentlemen..” ha scavato nel profondo dei nostri martoriati cuori prima che ci si buttasse letteralmente via quando le note di “So Long You Pretty Thing” hanno risuonato senza accompagnamento di alcun tipo per lunghi istanti. A quel punto eravamo solo più coperti da un lenzuolo e pascolavamo verso le famose acque tranquille magnificando il pastore dalla lunga chioma, e non serve che mi soffermi sull’ammaliante incedere dell’elegia. Al muro del suono tirato su da “Electric Mainline” e dalla conclusiva “Smiles” il compito di certificare il passaggio dalla condizione umana all’estasi del toccare con mano l’eterno divino.
Le due ore del rito hanno restituito la fede a chi erroneamente credeva che non ci sarebbe stata redenzione. Uscendo, nel buio della notte di un autunno che avanza inesorabile, abbiamo vinto il freddo col calore dei cuori rasserenati dall’apparizione.
(Daniele Boselli)
20 novembre 2012