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Mettiamo subito in chiaro una cosa; “Lost Songs” non è “Worlds Apart” né tanto meno “Source, Tags and Codes”, però regge meravigliosamente il confronto con i capolavori del passato ed è sicuramente il migliore fra gli ultimi dischi del gruppo texano. Sembravano aver perso irruenza concentrandosi sul concetto più che sul rumore, per cui tutto pareva prolisso e poco a fuoco. Invece il colpo di coda pare ora riuscitissimo, vuoi perché spazza via il continuo girare insistentemente a vuoto a discapito delle canzoni e vuoi perché Conrad Keely e soci non sono (forse) mai stati così asciutti, potenti, rabbiosi, poetici e non solamente roboanti. Prova inconfutabile della mia affermazione è da ricercare nei dodici brani qui presenti, direi più ritrovati che persi.
Quello che però stupisce maggiormente è l’amalgama che riesuma l’anima del progetto Trail of Dead, ossia nobilitare l’hardcore innalzandolo a stato d’arte, costruendo un muro di suono capace non solo di stratificare ma anche di incunearsi fra le melodie. Siano esse ricercate nell’adagio-andante-forte-fortissimo-estasi-quiete oramai tipico del gruppo oppure nelle svisate per un pop rumoroso, urlato ma carico di pathos. “Pinhole Camera” mitraglia riff e si accascia in un sonico sonno oppiaceo apparente, “Flower Card Games” barcolla in un blues in crescendo mentre “Heart of Wires” è quello che Billy Corgan vorrebbe mettere in scena ora se non fosse troppo impegnato a rimembrare il passato.
Urgenza, veemenza non controllata ed esperienza fanno di queste canzoni un’ottima ripartenza; a tal proposito, se è proprio in chiusura che gli attori inchinandosi ricevono gli applausi, la Smith(iana) “Time and Again” potrebbe segnare un nuovo corso. Mai potremmo esserne più felici e lo scrosciare delle nostre mani non sarà solo rumore.
75/100
(Nicola Guerra)
11 dicembre 2012