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Nell’anno degli Alt-J, trionfatori ai Mercury Prize, e dei Django Django, in heavy rotation su gran parte delle radio d’oltremanica, c`è un’altra band britannica che ha fatto parecchio parlare di sé: il gruppo in questione sono i Toy, quintetto londinese che ha pubblicato a settembre l’omonimo album d’esordio. Subito etichettati come “cloni” dei più famosi The Horrors (ai quali hanno fatto da spalla per il tour autunnale nel Regno Unito), i cinque musicisti avevano attirato su di sé i riflettori già nel 2011 con il singolo “Left Myself Behind”, una pregevole cavalcata di 8 minuti che, bisogna ammetterlo, ricordava da vicino per sound ed attitudine alcuni dei pezzi più celebri di Faris Badwan e soci. A rafforzare l’hype hanno contribuito poi alcune esaltanti esibizioni live, che hanno fatto da preludio al contratto con la Heavenly ed alla pubblicazione del loro primo full lenght.
Mettendo da parte la questione mediatica e concentrandosi sul puro aspetto musicale, non si può che restare piacevolmente sorpresi dall’opera prima di questo giovane quintetto. Lavorando in particolare sulla tecnica esecutiva e sulla stratificazione strumentale, l’ensemble londinese ha plasmato un tessuto sonoro denso e irregolare, che proietta l’ascoltatore in una dimensione dilatata e fortemente evocativa.
Nell’identificare le influenze che animano la musica dei Toy molti hanno tirato in ballo il kraut-rock dei Neu, paragone che ci può stare se si guarda alle lunghe e pregevoli code strumentali di pezzi come “Dead & Gone e “Kopter”, ma che rischia anche di essere un tantino fuorviante. L’immaginario a cui attingono i Toy va infatti individuato principalmente nel revival dark/wave – post punk che andava tanto di moda un paio di anni fa, con l’aggiunta degli immancabili riverberi chitarristici tipicamente shoegaze. Niente di particolarmente originale quindi, eppure la qualità dei singoli brani e le doti musicali della band consentono al disco di fare il salto di qualità, tanto da poterlo considerare un esordio coi fiocchi, tra i migliori di questo 2012.
L’apertura di “Colors Running Out” fa da sinossi al resto dell’album. Oscuro e lunatico, il brano in questione va ascoltato rigorosamente a luci spente per godersi appieno il suo mood cupo ed allo stesso tempo ridondante. Il convulso suono delle chitarre è, insieme al drumming frenetico di Charlie Salvidge, il vero protagonista del disco: perfetto sia nello schizzare il virtuoso disordine dei brani più concitati (le già citate “Dead & Gone e “Kopter”, ma, in parte, anche il primo singolo “Motoring”), che nel disegnare i tratti vagamente ipnotici dei pezzi più lenti (“Lose My Way” e “My Heart Skips A Beat”, due probabili singoli). Sono proprio le tracce più calme e rarefatte a dare al disco un respiro più ampio, facendo saltare alla mente paragoni prestigiosi come gli Echo And The Bunnymen o perfino i New Order di “Power, Corruption & Lies”.
Certo, l’album non è esente da difetti: l’eccessiva durata e la ripetitività di alcune idee alla lunga rischiano di appesantire un po’ l’ascolto, mentre il cantato di Tom Dougall a tratti risulta un tantino monocorde; comunque tutti errori perdonabili ad una band giovane e, come si diceva una volta, “di belle speranze”.
In conclusione i Toy sfiorano il colpaccio, dimostrando di meritarsi ampiamente l’hype che li circonda. Non ci resta che attendere il secondo album per decidere se si può parlare di una nuova grande realtà o dell’ennesima brillante meteora.
75/100
(Stefano Solaro)
18 dicembre 2012