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Un disco totalizzante che assorbe generi e influenze con grande naturalezza. Arrangiamenti mai pesanti e una filigrana strumentale che non copre l’impegno concettuale alla base del progetto. Prodotto da Ranucci e da Gigi Borgogno, “Dialects”, vincitore del Radici Etno Contest 2011, segue “Il giardino delle delizie” del 2007, da cui fu tratto il tema per la colonna sonora de “Le rose del deserto”, ultimo film di Mario Monicelli.
È una sorta di “Palepoli” del nuovo millennio: se il capolavoro degli Osanna (la band di Borgogno…) era una sorta di concept su Napoli, un “odio e amo” che afferrava la città partenopea per il bàvero e la scrollava con passione viscerale, qui la mediterraneità si scompone in una fantasmagoria rococò, estroversa e aperta a culture diverse, ricca di particolari cesellati.
Colonna sonora di una ideale – utopica? – fratellanza universale, una Città del Sole senza un centro e senza confini definiti, “Dialects” è la proiezione a tre dimensioni di una splendida astrazione. L’idea non è ovviamente nuova, ma qui, alla faccia di Platone, il fenomeno la rappresenta piuttosto fedelmente, grazie alla rarefazione dell’elettronica e al perfetto bilanciamento delle fonti d’ispirazione. Contaminazione assoluta di stili e strumentazioni l’album realizza quella spersonalizzazione delle origini etniche – “regardless of their point of origin” come recita il booklet – che è operazione assai delicata: se per un verso allontana qualsiasi effetto “tuttifrutti”, dall’altro può portare diritto in bocca alla new age (sia detto senza prevenzione…). Ma Ranucci, sassofonista di larghe vedute, si tiene saldamente ancorato alla concretezza del pop, anche quando lascia trasparire una chiara propensione al soundtrack.
Se “WTC” suona addirittura techno, “Terra Di Lavoro” scorre tutta in punta di piedi, spumeggiante, brillante e ritmata come un pezzo di Sting incrociato a un ballabile popolare. “Onde” è vicina ai modi di Peppe Servillo e degli Avion Travel, mentre “Choral” è la trascrizione etno-world del celeberrimo corale della “Passione secondo Matteo” di Bach: la lingua di Maometto si sposa con l’accesa drammatizzazione della religiosità luterana offrendo la prova emblematica di un comune sentimento del sacro. “Lullaby For Camilla” è una ninna nanna in cui le brume britanniche sono squarciate da calde lame di sole, come in certi vocalizzi di canterburiana memoria. Chiusura all’insegna di un personale hip-hop con “Napoli Hard”.
Le lingue, come i generi musicali, sono solo varianti – dialetti appunto – di un unico codice espressivo, quello della solidarietà.
78/100
(Federico Olmi)
14 dicembre 2012