Share This Article
La parola “declino” ci parla di fine di un’epoca, di grandezza e splendore, di contrazione di ogni forma di crescita, di collasso generale di valori e ricchezze, di credenze e fedi… Ma resta una parola letteraria, nella quale scintilla un aspetto estetico fortemente edonistico e auto compiaciuto, nel quale la fine di civiltà non odora di nulla. Siamo invece in pieno “smottamento” e la sporcizia prodotta necessita di termini concreti, di espressioni stilistiche dalle mani immelmate dal contatto con le macerie, dalle voci roche per la polvere respirata, dalle note ostiche e ostili.
L’ ultimo album dei Bachi da Pietra, “Quintale”, registrato e mixato da Giulio Favero, fa al caso del sudiciume di questo nostro declino: quintale di rumore, quintale di dolore, quintale di merda, quintale di sangue, quintale di sconcezze, quintale di pietra su di noi, quintale di porcherie da raccontare, quintale di ingiustizie per le quali non reclamare più alcun risarcimento. Giovanni Succi e Bruno Dorella per ottenere la possanza primeva che serve allo scopo di raccontare “il terriccio senza fine” ed estremizzare la resa di strumenti rock come chitarra e batteria, tradizionalmente arrembanti per protesta e denuncia (ascoltare la perdifiato “Coleotteri” per capire), registrano l’intero album evitando ogni trattamento digitale.
Nella coerenza che li contraddistingue – che è anche coerenza di genere – la scelta della registrazione analogica accentua il minimalismo dei Bachi che scarificano la base blues, sì dolente ma già vitale e sensuale, fino a raggiungere maggiore oscurità, sulfurea, disturbante e sofferta. Ne emerge uno sludge-metal pietrificato in una trance mortifera (vedi la litania “Enigma” o il loro canto lugubre del marinaio “Mari Lontani”) o uno stoner sberciato da inserti noise striscianti (“Paolo il Tarlo”… un anti Paolo di Tarso?). Come in un trionfo della morte, attraversa l’intero album l’aggressività di una saggezza sferzante, maturata in strada (non si può ignorare il fraseggio espressivamente rap di “Fessura”, ballad metal allo stato puro) dove il dolore è spigoloso e cattivo, crudele e tenero come nella travagliata “Dio del suolo” che arriva a raccogliere il putridume lasciato dall’infernale “Sangue” (degna dei Neurosis), o come nella spartana “Ma anche no”, sguardo terminale su un mondo abitato da muschi e lumache, dove non verranno spese più parole per raccontare la fine.
Tuttavia la raggelante cronaca di sfacelo e marciume senza letterarietà non raggiunge la sua rivoluzione copernicana, poiché, pur intuendo la via per una nuova forma di racconto (gli sguardi panteisti piegati alla suggestione poco rasserenante di un mondo brulicante altro sono la riprova di ciò), “Quintale” resta fedele incondizionatamente ai topoi di genere, sua forza e qualità, ma anche suo limite. Che vuol dire che i Bachi da Pietra trovandosi di fronte al compito di trovare nuove parole per tutto quello che di nuovo si presenta di fronte a noi, oltre il baratro, ancorano per il momento la loro ricerca stilistica a immagini letterarie!
Ma il crepuscolo è lungo, e sospetto che i Bachi da Pietra avranno tutto il tempo per rosicare impietosi fino al cuore di tenebra di un marcio tramonto.
66/100
(Stefania Italiano)
23 gennaio 2013
(foto di Gabriele Spadini)