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La prima sensazione che si prova ascoltando “Lightning Bolt”, pezzo di lancio dell’album d’esordio di Jake Bugg, è di fastidio. Viene da chiedersi chi diavolo si creda di essere questo ragazzino di diciott’anni per scimmiottare in tutto e per tutto la voce di Bob Dylan. Ma si sa, le prime impressioni spesso rischiano di essere fuorvianti.
Cercate di dimenticare per un secondo quanto odiate NME e la sua macchina dell’hype e concentratevi invece sul perché una label come la Mercury abbia deciso di puntare tutto su un ragazzo classe 1994 (!) che, accompagnato solo dalla sua fidata chitarra, si diverte a sfidare i titani della musica pop. Il motivo è ovvio se vi fermate un secondo a riflettere: Jake Bugg ha l’innata capacità di saper scrivere canzoni semplici ma dannatamente incisive. Questo è quanto.
La trama del suo omonimo album di debutto si snoda lungo 14 tracce che non superano quasi mai i quattro minuti di lunghezza (unica eccezione la ballata strappalacrime “Broken”). La struttura dei brani è estremamente lineare: strofa – ritornello – strofa, con la chitarra acustica a tirare le redini, accompagnata di tanto in tanto da qualche sparuto vapore elettrico (come nella già citata ”Lighting Bolt”, talmente dylaniana da sembrare un outtake di “Higway 61 Revisited”) e sorretta da arrangiamenti essenziali ma mai banali. La facilità con cui il ragazzino di Nottingham riesce ad estrarre dal cilindro melodie di presa immediata è semplicemente disarmante. Il singolo “Two Fingers”, per esempio, è il pezzo pop che migliaia di band sognano di scrivere da una vita, con la sua melodia magnetica ed un refrain che chiede solo di essere cantato in coro. Dentro c’è tutto il meglio della recente tradizione brit, dall’immediatezza delle prime hit dei fratelli Gallagher, alla sfrontatezza mid ’00s firmata Alex Turner.
E che dire invece di “Seen It All”? Impossibile non rimanere rapiti da questo divertente mid-tempo, il racconto di un pericoloso venerdì sera in provincia, tra feste indiavolate, pillole ingurgitate, e coltellate prese o sfiorate.
Benché le canzoni di Jake Bugg abbiano un tono spesso derivativo, raramente si ha la sensazione di stare ascoltando la scopiazzatura di melodie già incise da altri. Perfino nei momenti in cui l’ombra di Bob Dylan si fa ingombrante (nel canto da saloon “Trouble Town” o nella scatenata “Taste It”, per esempio), la sensazione è sempre quella di trovarsi di fronte ad un prodotto musicale oltremodo fresco e godibile. Il ragazzino non si limita a ripetere a memoria la lezione dei suoi padri putativi, ma si diverte a darne una propria personale reinterpretazione. Provare per credere la ballata ecumenica “Slide”, che fa pensare ancora una volta alle migliori composizioni di Noel Gallagher (spogliate delle chitarre elettriche), o le dolce litanie “Someone Told Me” e “Note To Self”, che scomodano paragoni ancora più ingombranti (qualcuno ha detto Elvis Costello?).
C’è poco da fare, potrà piacere o non piacere il fatto che un imberbe diciottenne venga indicato da molti come il futuro profeta della musica britannica, ma di fronte alla qualità oggettiva della maggior parte dei brani incisi da questo ragazzino è difficile parlare di abbagli. Siamo piuttosto di fronte ad un giovane cantautore a dir poco promettente, che nel suo album d’esordio ha messo in mostra doti di songwriting davvero invidiabili (solo lo statunitense Mac Demarco ha fatto qualcosa di simile quest’anno). L’acerbo Jake ha ancora tutto da dimostrare, certo, ma intanto ha già regalato ai posteri un disco di ottime canzoni. E non è poco.
78/100
(Stefano Solaro)
09 gennaio 2012