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Raccontare la totale debacle delle discherie palermitane assomiglia alla litania funebre durante la quale si inanellano nomi in fila indiana, così tanti e rapidi nel cadere in picchiata che quando credi di averli ricordati tutti, ecco che ne salta in mente un altro ad accrescere lo sconforto “Dunque… Anche lui?”. Questi luoghi, queste palestre di affinamento dei sensi in maniera culturale, hanno ceduto su tutti i fronti dopo aver arretrato la linea difensiva, per poi essere travolti senza pietà dalla rovinosa battaglia… contro cosa?
Chi è scampato alla devastazione è sopravvissuto come un esiliato in terra straniera, riadattando la propria attività (come per esempio M.A.E.R. che ora è un negozio di souvenir siciliani per turisti non aggiornati) o affiancando alla vendita di dischi, sempre meno, sempre più scontati, sempre più raccolte sanremesi, la vendita di libri o giochi per bambini.
Rigorosamente in ordine sparso per avvertire il rombo dei crolli da ogni parte… lì c’era Ellepì, e ancora più in là La Boutique della Musica, da questa parte Track, e Master, e Crush. Ti ricordi dov’era Musicomania? No, lì c’era la Record Sucker. E Super Sound? Già… Io mi ricordo Diskery e tu? Ah sì anche Best Record… e poi c’era Il Musichiere, e resiste ancora per la classica Disco Bum… che svende… brutto segno… e dimentico qualche nome, sicuramente. Solo un bombardamento o il tempo cancellano in macerie silenziose attività e luoghi, ma forse più la guerra che alla vita sostituisce il deserto.
Chiedo scusa se uso termini bellici, ma in verità non posso usarne di diversi per descrivere una situazione che ha tutti i connotati di una guerra perduta… e ritorna la domanda “contro cosa?” E passi per il mercato che cambia, lo ha sempre fatto e un prodotto che tramonta viene soppiantato senza troppi pensieri, e vada anche per i supporti fonografici che si sostituiscono inseguendo una fruibilità tecnologica che impoverisce la qualità della musica. Su questo punto in fondo non poteva essere altrimenti: nel momento in cui la musica, come le altre forme d’arte, diviene riproducibile, perde la sua aura consegnandosi mani e piedi all’industria che crea supporti fonografici sempre più sofisticati per riprodurla. Era inevitabile da quel momento che la musica seguisse di pari passo lo sviluppo di nuovi supporti – dall’Lp alla musicassetta al cd all’mp3- trasformando la sua essenza nella sostanza che la emetteva: oggi che la rivoluzione digitale e virtuale ha conquistato ogni aspetto della nostra vita conta avere il pc più moderno e griffato per ascoltare la musica. Conta la mascherina del programma che ti fa girare l’mp3, conta il colore dei vu-meter, conta quello che stai facendo e stai digitando su twitter mentre dal pc esce musica di sottofondo. Non conta che la musica che stai ascoltando è stipata… Ma diciamocela tutta, in passato si compravano i dischi perché non c’era altro modo per avere musica da “usare” liberamente, mentre oggi a comprare lp soprattutto, sono i cultori, sono gli innamorati dell’oggetto artistico che produce musica e della musica di qualità, del prodotto spesso raro (vedi il collezionismo), del prodotto con una sua storia (vedi il successo dei mercatini dell’usato). Saranno meno della massa consumista che ha indirizzato le sue attenzioni verso altro, ma più fedeli, più costanti, più esperti, più informati e forse numericamente superiori agli amatori degli anni ’60.
Come giustificare allora la chiusura delle discherie a Palermo? Contro chi o cosa hanno dovuto combattere i proprietari di un’attività che non nasce mai in primis con l’obiettivo di fare quattrini? Ho cercato di parlare con ognuno di loro. Qualcuno ha risposto immediatamente alla richiesta di un incontro, entusiasmato dall’idea di raccontarsi ancora, di condividere ricordi della sua vita e di una Palermo che non c’è più. Qualcun altro si è defilato dopo aver preso appuntamento, senza sospettare quanto lo comprendessi: qualcuno di loro si è veramente scottato perdendo questa guerra. Qualcun altro invece ha proprio ignorato la proposta, coinvolto ormai dal vortice di altri impegni lavorativi, dalla stanchezza dell’età (da non sottovalutare), dal rifiuto totale a riconoscere un passato che anche se non troppo lontano ha sepolto nel luogo dell’oblio volontario. Perché una discheria non è mai una mera attività commerciale!
Emilio Paolo Taormina è stato uno degli ultimi a cedere le armi (chiude infatti la sua attività nel maggio 2012, seguito poco dopo da Diskery di Gianni Li Vigni che pone i sigilli a luglio) e uno dei primi a inaugurare con il suo negozio La Boutique della Musica (indeciso se il 5 o il 9 febbraio del 1962) la straordinaria “impresa” di aiutare a costruire un carattere dentro la persona: “Uno dei più vecchi d’Italia! Visto che Ricordi non esiste più (…) era di gran lunga il negozio più antico di Palermo!”. Nella breve ma compatta chiacchierata Taormina ha rappresentato quella coscienza storica e insieme politica che sin dalle prime battute ha messo ordine alla questione, confermando l’esito sconfortante di questa guerra che ha condotto ad un arretramento culturale. Parlando del passato e del segreto del successo della sua Boutique dice: “Se parliamo della Palermo discografica… quello dei supporti fonografici purtroppo è sempre stato il ventre molle del commercio, perché anche nei cosiddetti tempi d’oro le cose non andavano molto bene. I negozi tiravano quattro, cinque, dieci anni e poi chiudevano. Quale è stata però la chiave del successo di un negozio che è durato cinquant’anni? Il negozio era un budello e non era fatto per articoli diciamo alla moda – perché la musica negli anni ’60 era una questione di moda! Per mia natura e per necessità quindi mi sono dovuto rivolgere ad un pubblico specializzato sin dall’inizio (…) I miei acquirenti erano professionisti, giornalisti, collezionisti, un pubblico difficile. Voglio essere estremamente sincero: non deve pensare che io facessi il maestro al negozio. Io, al negozio, ho sempre avuto clienti che ne sapevano più di me, io ho più imparato che insegnato. (…) per me il negozio è stata una specie di università.”
Taormina spiega che la musica specializzata è sempre stata di lentissima vendita e che per permettere ai suoi acquirenti di godere di arrivi assortiti e succulenti ha sempre dovuto “compromettersi” con quella musica che i suoi acquirenti snobbavano, ma che garantiva di fare cassa. È negli anni ’90 però che tutto comincia a cambiare in peggio, resistendo per anni all’assalto del disinteresse generale per l’oggetto disco fino al maggio di quest’anno quando, giunto al punto di non vendere assolutamente nulla per 2-3 giorni di fila, ha ceduto alla necessità e al desiderio di riposarsi dopo cinquant’anni d’ininterrotta attività. Taormina forte della sua esperienza umana e intellettuale sente di poter dare la data storica certa in cui il degrado inesorabile ha avuto inizio: “La data storica è la caduta del Muro di Berlino”.
E tenendo sospeso sulla mia testa il filo della storia da lui srotolato con attenzione e intelligenza chiarisce: “Mi segua: (…) Il fatto che la gente scarichi musica da internet in fondo con la crisi di vendita della musica c’entra come i cavoli a merenda. [Il fatto è un altro] un libro o un disco è un oggetto che ha qualcosa dell’autore. Quando si compra un libro di Pasolini quel libro ha qualcosa di Pasolini, se si compra un disco di Elvis Presley quel disco ha qualcosa di Elvis Presley: tu compri un oggetto anche in funzione di una compagnia, di un’amicizia segreta. Quando entravo nella mia stanza con il manifesto dei Platters, i 45 giri tutti messi in ordine, i libri, Faulkner, Hemingway, Pavese, Tozzi… io mi sentivo veramente in buona compagnia, perché questi autori e questi cantanti, me li sentivo amici! Mi tenevano in piedi. Ora: la caduta del muro di Berlino ha avuto effetti nefandi nella cultura (fino alla disoccupazione e miseria di oggi) perché il disinteresse all’acquisto del disco non è determinato dal fatto che io me lo scarico da internet, ma dal fatto che non ho più bisogno di supporti alla mia personalità. (…). Il problema non è che stanno chiudendo i negozi che vendono supporti fonografici o quelli che li producono. Il problema, che è storico, è molto più grave, e riguarda il fatto che ci siamo medioevalizzati.” Con la sua voce serafica, di un tono più alto solo per ira repressa, Taormina non poteva raggiungere un effetto più tranciante di così. Ha detto cose semplici ed importanti, e se rileggo le sue parole, mi stupisco perché mentre capivo quello che spiegava e mentre annuivo, e non mi sfuggivano le implicazioni storiche, culturali, sociali, economiche che le sue osservazioni suggerivano, non stavamo parlando solo di dischi.
Una vita turbinosa e felice all’insegna della musica è stata quella di Salvatore Principe, ex dj in discoteca e in radio, ex fornitore, ex proprietario di Super Sound, padre di Giampaolo e Pierluigi altri due appassionati ed ex proprietari di discherie. Una vera dinastia! Ma anche una straordinaria passione che emerge dalla chiacchierata fiume fatta con Salvatore e Giampaolo e che purtroppo per motivi di spazio non potrà essere riportata integralmente in questo scritto (ritroveremo Giampaolo Principe nella seconda parte di questa breve inchiesta). La passione certo, ma anche la commozione nel ricordare gli inizi scapestrati di dj per caso e di fornitore improvvisato che cavalcava la fortuna di avere una zia in Inghilterra dalla quale farsi inviare dischi da rivendere qui “per recuperarci il costo della propria copia!”, l’orgoglio nel ricordare la sfida che è stata decidere di abbandonare un posto assicurato nell’allora Sip per seguire, con l’appoggio morale della sola moglie, le sorti della propria personale attività nella discheria Super Sound a Piazza Virgilio dove “succedevano le cose più belle”. Quasi un’epopea oggi improponibile ai più che fanno fatica a capire la bellezza di un lavoro che si prefiggeva come alta ricompensa il “fare felice la gente!”. E tra un ricordo e l’altro, emerge un fatto di vita che nelle discherie capitava abitualmente, che ho trovato in tutti i racconti messi insieme, avvalorando l’ipotesi che la musica vada di pari passo con una delle attitudini più generose e commoventi dell’essere umano, stringere amicizia con un’altra persona un attimo prima sconosciuta: “Era un lavoro fatto d’amore, e non si poteva fare in nessun’altra maniera. Al di là della musica si creavano amicizie, la gente ti veniva a trovare perché veniva a passare due orette con te, e magari comprava la musica (…) ti veniva a trovare, e tra un caffè e l’altro – sapendo cosa piaceva alle singole persone – facevo ascoltare gli ultimi arrivi. Mettevo da parte dischi per le persone perché sapevo che sarebbero passate, era la routine. Passavano “Ci prendiamo un caffè?” “Sì!” “Ho una cosa per te”. Mettevo il disco “Aaahh bellissimo! Quanto ti devo dare?” Lavoravo tantissimo e non ero mai stanco! Sono sicuro che chi lavora così non invecchia mai. Ma ripeto… Al di là del fatto che non ti pesava, essendo un cultore ti confrontavi con altra gente che arrivava al negozio come eri arrivato tu, e il bello era che scattava una scintilla e si parlava come se vi conosceste da tanto tempo.”
Principe non è tenero nei confronti delle case discografiche: “Ben gli sta quello che è successo! – sono di un contento che non hai idea” perché “hanno continuato con la loro politica di vendita. I negozi già li affossavano in tempo di pace quando tutto funzionava! Il rappresentante doveva vendere per guadagnare, veniva e ti diceva: È uscito pinco palla quante copie vuoi? Mandamene 20 copie! 20 copie? Ma prendine almeno 50…” e così accadeva che guadagni sicuri sul numero stimato di copie vendibili non si verificavano e che quel tanto di guadagnato andava riversato sulle copie in più. Per tutto il tempo le case discografiche hanno continuato a forzare in modo scioccamente miope, fino a rompere la corda. Per Salvo Principe non è stato casuale l’atteggiamento delle case discografiche che scientemente hanno deciso di non cambiare la situazione. C’era qualcosa infatti che secondo Principe avrebbero potuto fare: “Nel momento in cui le case discografiche hanno pensato di fare le furbe sono state stupide. Ok, vuoi fare business? Perfetto: stampa il cd (un dischetto, una bustina di plastica, un fogliettino con una sola immagine) e lo dai ad un prezzo politico a chiunque, alle grandi superfici, ai tabacchini, ai giornalai, a chiunque! A Salvo Principe invece che ha il negozio, gli prepari un cofanetto con immagini, con i testi, con tre cd da collezione: per esempio con una edizione rimasterizzata, con la versione dance, la versione live, con l’intervista… con tutte le versioni di questo mondo, in modo tale da creare una cosa preziosa, da collezione! Noi collezionavamo i dischi, al di là della musica. Io compravo il primo disco dei Sun, lo avevo solo io, lo sentivo, possibilmente i brani che mi interessavano ai tempi li passavo in cassetta e poi il disco lo conservavo. Si era audiofili e collezionisti! In questo modo poteva continuare ancora la vendita dei dischi nelle discherie… io casa discografica numero le copie, ne faccio 1000 e voi vi rompete le corna, chi le prende le prende, chi non le prende si attacca! Il fatto è che loro hanno tirato una linea e hanno detto vaffanculo a tutti! Oggi dopo quindici anni cosa puoi più fare? Ormai hai gli mp3 e te li puoi scaricare da internet”. E conclude con realismo disincantato: “Le case discografiche dovevano licenziare metà del personale, abbassare la percentuale di guadagno dei rappresentanti dal 15 al 3,5% fino al 5% ecc, e pagarli quando il cliente aveva pagato, non prima! I rappresentanti hanno infognato le case discografiche!”
Solo per distrazione colpevole abbiamo perduto il “paradiso”? Nella distrazione si celano intenzioni non rappresentabili, e nessuno mi toglie dalla testa che la chiusura di una discheria, di tante discherie, non sia estranea al clima esasperato di intere e miste generazioni che ora, oggi, confluiscono verso il medesimo delta.
Vai a La guerra perduta delle discherie di Palermo. Parte 2
(Stefania Italiano)
24 gennaio 2013
(dall’alto in basso foto di puuikibeach, frgetmenot, puuikibeach, Draft one, Horia Varlan)
2 Comments
nick
bellissimo articolo!!!
eniclato
“c’è stato un momento, alla fine del medioevo, in cui anche l’ultimo negozio di spade ha chiuso” – cit