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Dopo aver fatto gridare al miracolo in molti con il loro primo disco, si rifanno vivi dopo più di due anni gli Everything Everything dando alle stampe “Arc”, un album che ha già diviso critica e fan. Anche il precedente “Man Alive”, a dire il vero, non aveva raccolto consensi del tutto unanimi: Pitchfork, per esempio, gli aveva affibbiato un bel quattro, confermando l’ormai nota avversione per (quasi) tutte le next big thing britanniche. Quello che è certo, Pitchfork o non Pitchfork, è che l’album d’esordio aveva messo in luce una band innegabilmente dotata, capace di dare vita ad un sound barocco ed eccentrico, tutto giocato su garbugli vocali e strumentali di stampo tipicamente math.
Ascoltando “Arc” si ha l’impressione che il complesso di Manchester durante la sua lavorazione sia stato assalito da un dubbio amletico: perdersi sempre di più per le intricate vie dell’art-pop più tecnico e ricercato o alleggerire suoni ed arrangiamenti per rendere il tutto più fruibile? Il risultato è un prodotto ibrido, intrappolato in una sorta di no man’s land. Meno stravagante (e quindi meno interessante) del suo predecessore, ma non sufficientemente accessibile per entrare subito nelle orecchie dell’ascoltatore. Non che l’accessibilità debba per forza essere un fattore determinante nel giudizio di un disco, sia chiaro, ma questo “Arc” in definitiva riempie le orecchie più di quanto scaldi il cuore.
Il marchio di fabbrica degli Everything Everything restano le tortuose strutture melodiche, impostate ora principalmente sulle complesse vocalizzazioni (è il falsetto a farla quasi sempre da padrone) di Johnatan Higgs, ancor di più che sulle irrequiete architetture math-pop. Nel vertiginoso primo singolo “Cough Cough” recuperano certi arabeschi ritmici cari ai Foals, che fanno il paio con i saliscendi del cantato del frontman. Stesso discorso vale per la bella “Kemosabe”, probabilmente il brano migliore dell’album, che spicca per la ricchissima parte strumentale oltreché per il frenetico refrain, quest’ultimo davvero travolgente. Un ruolo importante è riservato ancora una volta ai synth, che rifiniscono l’intelaiatura di quasi tutte le tracce senza essere mai invadenti. Numerose sono inoltre le strizzate d’occhio ad un sound tipicamente radioheadiano, specialmente nei brani meglio riusciti. Evidente è l’influenza di Thom Yorke e soci in pezzi come l’incalzante “Underworld”, che pare quasi un estratto di “Hail to The Thief”, o in “Choice Mountain”, che sembra invece un incrocio tra i Radiohead di “In Rainbows” e i The Antlers.
Non mancano altresì inaspettate incursioni nel pop più classico, ai confini con il mainstream (la comunque apprezzabile “Duet”, a metà strada tra Clock Opera e Coldplay), né ammiccamenti ad un sound tra il teatrale e l’irriverente, caro ai primi Wild Beasts (in “Torso Of The Week”, soprattutto).
Finito l’elenco dei pregi, non si possono però tralasciare i difetti che impediscono ad “Arc” di spiccare veramente il volo. Non tutti i pezzi funzionano come dovrebbero, tanto che alla fine si conta più di un riempitivo. Oltre alla scarsa “emozionalità” tirata in ballo all’inizio poi, il disco pecca a tratti di un eccessivo manierismo che, unito ad una ricerca ostinata del colpo ad effetto che tende quasi all’artificioso, rende l’ascolto a tratti stucchevole.
In definitiva gli Everything Everything dimostrano ancora una volta di avere la stoffa per lasciare il segno, ma mancano ancora di quella maturità necessaria per fare davvero il salto di qualità. Attendiamo fiduciosi.
65/100
(Stefano Solaro)
15 febbraio 2013