Share This Article
Lontano dai riflettori, dalle luci della ribalta, gli I Am Kloot, album dopo album, si sono costruiti una forte credibilità nel panorama rock inglese. Non li vedrete mai suonare davanti a folle oceaniche in estasi, non ci troviamo di fronte a un gruppo alla Coldplay, amato e apprezzato dal grande pubblico.
Gli I Am Kloot, trio nato nel 1999 a Manchester, purtroppo o per fortuna, sono rimasti nell’angolo, in penombra, fuori dalle vette delle classifiche. Lo splendido esordio “Natural History” (2001) rimane una pietra miliare dell’indie rock di inizio millennio, negli anni a seguire, a differenza di molti colleghi, svaniti nel nulla, gli I Am Kloot sono sopravvissuti alle mode passeggere e l’hanno fatto con classe e stile: si sono sempre mantenuti su livelli qualitativi medio-alti.
Se ce ne fosse stato bisogno, “Let it all in” è l’ennesimo colpo messo a segno, alla produzione si riconfermano Craig Potter e Guy Garvey, componenti degli Elbow e amici di vecchia data della band. Il risultato è pregevole, “Let it all in” è un disco ben scritto e suonato, con arrangiamenti sopraffini. Niente è lasciato al caso, la cura dei dettagli è maniacale: la delicatezza del tocco di chitarra, il cantato mai invadente, leggero e volatile come una foglia decadente, la dolcezza suadente della sezione ritmica.
Ne esce fuori un pop aristocratico nella forma e democratico nei contenuti, alla portata di tutti. La magniloquenza degli inserimenti orchestrali di “Hold back the night” si contrappone alla semplicità intimista di canzoni come “Mouth on Me” e “Shoeless”. Gli I Am Kloot si dimostrano capaci di coniugare lato acustico e orchestrale, liberando il campo da facili manierismi e pressappochismi. Johnny Bramwell e compagni non inventano nulla, si limitano a rielaborare ciò che c’è e non si vede, con garbo fanno rivivere quel gusto pop classico andato perduto.
70/100
(Monica Mazzoli)