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Alle nostre latitudini il cosiddetto “fenomeno hipster” è ancora agli inizi a livello estetico, seppur a ben vedere già fortemente radicato nelle scelte, questa volta non solo formali, dettate da un certo senso comune alternativo. Altrove, in luoghi dotati di scene culturali meno provinciali della nostra, questo tipo di opzione è già da tempo visibile e largamente integrata nel tessuto urbano, al punto che risultano già molto evidenti le contromosse stilistiche, i recuperi differenti, che agitano coloro che non si sentono affatto post-tutto, ma rivendicano una memoria storica non unicamente radicata nel feticismo verso un immaginario materiale, riguardante cioè esattamente degli oggetti, di un’altra epoca. Coloro che, in altre parole, si percepiscono come estranei a quella deregolamentazione del “lusso spirituale”, studiato molti anni fa da Furio Jesi.
Una rinascita di un orizzonte in grado di condurre ad una fuoriuscita dall’impasse che nel mondo anglosassone questa cultura sta alla lunga creando sembrava non lontana non meno di un anno e mezzo fa: uscite diverse tra loro ma accomunate da un gusto nostalgico nel senso della sincerità da shoegazer primi anni ’90, da una attitudine non tanto verso una presunta “autenticità” (non è probabilmente questo il nodo della questione) quanto mirante ad una spiccata densità emotiva, ed infine dal recupero di un uso delle chitarre e dei volumi strettamente riconducibile ad anni senz’altro poco “ironici”, sono apparse per un momento l’inizio di qualcosa. Gli esordi di gruppi come The Pains Of Being Pure At Heart, Yuck e Ringo Deathstarr hanno per altro certamente segnato una fase, che però ha rapidamente mostrato i limiti di un revivalismo un po’ improvvisato, che si è immediatamente palesato con le deludenti seconde prove dei primi, l’incerto “Belong”, e degli ultimi con il mimetico “Mauve”, indirizzando molti commentatori verso una rapida liquidazione della corrente.
L’esordio della curiosa sigla The History Of Apple Pie giunge quindi in una strana fase di crisi di qualcosa che realmente non è mai nato, ma che non è neanche possibile definire completamente esanime alla luce del successo del rock da “poser dell’autenticità” dei Japandroids e della svolta, decisamente più apprezzabile, operata dai Cloud Nothings nella direzione di una sorta di post-grunge più rabbioso che nostalgico, con il recente “Attack On Memory”.
Con questo “Out Of View” il collettivo londinese, creativamente in realtà un duo composto dai fondatori Stephanie Min e Jerome Watson, apporta alla causa un contributo troppo pacificante per essere definito controverso. Canzoni come “See You” e “Mallory” alludono, in modo senza dubbio avalutativo e un po’ mitologico, ad un mondo a cavallo tra dream-pop e shoegaze meno impegnativo, non molto Best Coast e più american indie classico. L’ascolto è, per altro, piacevolissimo, e i due sono già adesso in possesso di una rimarchevole linearità compositiva che, accompagnata dall’attitudine immaginativa e un po’ naïf, concorre alla creazione di atmosfere che alludono ad un mondo che, in quei termini, non è probabilmente mai esistito. “You’re So Cool” mostra il tutto con i toni avvolgenti della ballata insinuando qualcosa come un dubbio: il limite di questo tentativo non potrebbe esattamente essere la mancanza di mordente, che si tratti di ottimo manierismo senza le durezze degli anni cui ci si riferisce?
È probabilmente questo il tratto saliente del recupero in cui sono impegnati i nostri, così come gli Yuck ed altri: gruppi che anche solo per i nomi che portano sembrano ispirati da un universo profondamente e, per così dire, strutturalmente privato, omettendo la dimensione in un certo senso “pubblica” che la musica dei loro padri, seppur alla lontana, non mancava mai di evocare. Qualcosa come un’attitudine al conflitto, anche solamente relegata alla sfera dell’immaginario, all’insoddisfazione, all’inquietudine, frontalmente opposta ad una chiusura entro le quattro mura del revival non così distante dalla iperbolica neutralità dell’hipster contemporaneo.
Che, al contrario, possa tornare utile riscoprire la vocazione “hater” per cui se uno si presenta con baffo e bombetta allora è un fascista o, nella migliore delle ipotesi, un cretino?
65/100
(Francesco Marchesi)
21 febbraio 2013