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Ci sono cose immediate e altre che lo sono meno. Il suono degli Autechre, Rob Brown e Sean Booth, fa parte della categoria del “meno immediato”. “Exai” è lì, di nuovo, a testimoniarlo: ti chiedi a che punto siano del loro cammino, se ancora ci sia spazio nella loro testa per tracce come “Gantz Graft”, “Second Bad Livbel” e “Bike” e ti imbatti, ascoltando “Exai”, in qualcosa che richiama, in qualche modo, tutto quanto pubblicato fino ad oggi dai due di Rochdale.
Perché ormai, gli Autechre, anima stessa dell’IDM e, insieme, di tutto quello che la Warp ha significato, oltre ogni critica ed eccesso, dall’inizio degli anni ’90 ad oggi, questo sono. Incarnano e spingono al limite una spigolosità elettronica capace di tenere a distanza gli avventori dell’ultima ora ma anche, ogni volta, di mettere alla prova chi, da anni, li segue, perdendosi, ad esempio, nelle scariche isteriche di tracce come “vekoS”, per poi trovare squarci di quiete nel magma di “bladelores” e dondolare abbandonandosi alle lievi scosse di “jatevee C”.
Cercare, ambire, trovare, forse, una linea ritmica da seguire, bramarla e farne tesoro (“tuinorizn”), vivere alla giornata (“Flep”), perdere ogni speranza (“nodeszh”) e finire a fluttuare e contorcersi (“1 1 is”). Avere pazienza, indossare e togliere, a seconda del brano, le cuffie, masticare la tensione (“runrepik”).
È questa, oggi, la vita di chi presta ascolto ad album del genere, in bilico, ancora, forse fortunatamente, tra tutti (o quasi) i diversi modi di concepire la battuta nel suono elettronico da più di 20 anni a questa parte.
Non un capolavoro, ma, in alcuni momenti, ancora utile a mantenere viva la tensione tra introspezione e smania fisica.
70/100
(Tommaso Artioli)
26 marzo 2013