Share This Article
Tempi duri per i sognatori. Tempi duri per l’Italia e la musica italiana, non è una novità. Si fa sempre fatica, almeno per il sottoscritto, a scrivere di una band italiana. E dover enucleare quello che c’è dietro, quali riviste ne parlano, la portata dei testi, l’inesistenza o l’inconsistenza dei testi stessi e altre futilità. Per questo, quando arrivano dischi del genere, arriva una di quelle boccate d’ossigeno che stordiscono. I Brothers In Law sono un trio di Pesaro, ma potrebbero tranquillamente venire da Portland, da Brooklyn, da Glasgow o da Austin. E anzi a Austin ci vanno, passando proprio da Brooklyn, a rappresentare l’Italia al mitico SXSW. A fari spenti, come spesso succede per le migliori cose che avvengono in Italia. Per chi non avesse avuto la fortuna di vederli dal vivo nel centro-nord Nicola (già attivo nei concittadini Be Forest), Giacomo e Andrea avevano già due EP all’attivo.
Figli non del tutto illegittimi dello shoegaze e della C86, pensate a una risposta italiana (giusto per motivi di provenienza) a quelle sonorità che qualcuno chiama ancora jangle. Quelle riportate in auge da Wild Nothing, Beach Fossils/DIIV e compagnia “cantante” che tanto rievocano The Pastels, Beat Happening et similia.. “Lose Control” e “Go Ahead” lo mettono subito in chiaro. Le progressioni ritmiche così come le melodie sono semplici, ma miracolosamente rievocative. Le chitarre, dalla loro, sono proprie di chi, al di là dell’attitudine, ha la soggezione a sollevare lo sguardo fisso terra. Tagliate su misura per chi si è strappato il cuore a colpi di Ride (“Magic”). I brani praticamente non si dilungano mai, né si dilatano, così gli otto brani scorrono via in meno di mezzora. Senza intoppi e in maniera molto gradevole e omogenea. La splendida psico-ballad à la Kitchen of Distinctions, “Childhood” sa trafiggere i nervi e le membra e taglia l’album a metà insieme un’altra ballad che ha il sapore di un distillato dalle darklands, “She’s Gone Too Far”.
E poi due ombre che scivolano via come due opposti che si attraggono, a partire dai sottotitoli tra parentesi. Prima la sofferta “Shadow II (Follow Me”), brano un po’ da Atlas Sound, in cui basso e batteria (rigorosamente suonata in piedi) si fanno da parte. E “Shadow” (Leave Me)” in cui ricompaiono, secchi ed essenziali come da marchio di fabbrica dei Brothers in Law. La seconda parte è stata partorita secondo i racconti, un po’ a caso, prima di diventare un trascinante singolo che fa invidia Wild Nothing e a molti altri nomi della compagnia sopra menzionata.
Niente di nuovo? Fuori tempo massimo? (come si discuteva qualche settimana fa sulle nostre pagine)
In mancanza di libri sacri che attestino i presunti limiti temporali di queste sonorità emerse nell’underground più underground degli Eighties, l’attualità o l’originalità della proposta dei Brothers In Law conta quel che conta, meno di nulla. “40 Hours”, unico brano che supera il quinto minuto, fa cogliere dopo ventotto velocissimi minuti il valore di questo insolito trio italiano. E ci rimettono tumultuosamente in pace con quel mondo, fatto di ricordi, di Slowdive, di sogni agrodolci che, per qualcuno, sono annegati, annegano e continueranno ad annegare solo in sonorità del genere. Da post-romantici incompiuti e senza tempo, un po’ disillusi, un po’ sfigati, un po’ disincantati.
Sì, proprio tempi duri.
76/100
(Piero Merola)
1 Marzo 2013