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Se si giudicasse “Crusher” dalla copertina, si giungerebbe a conclusioni affrettate: il pensiero comune potrebbe essere quello di trovarsi davanti un album black metal. Come ogni front cover black metal che si rispetti, anche quella dei Grave Babies colpisce al primo impatto visivo, si fissa indelebile nella memoria, è quasi impossibile dimenticarla. In primo piano troneggia una testa di maiale, con tanto di fiori a morto annessi e sangue fresco ad abbellirne il quadro. La grafica dei caratteri del titolo dell’album richiama quella Old english dei dischi di Burzum, Satyricon. I titoli dei vari brani non fanno che alimentare questo immaginario, sono infarciti di riferimenti macabri e funerei (“Skulls”, “Death March”, “Blood on the face”).
La musica però si dimostra diametralmente opposta, i Grave Babies giocano sull’ipocrisia delle apparenze, sulla regola non scritta “non giudicare mai un libro/disco dalla copertina”. “Crusher”, secondo album dei Grave Babies, è un tentativo di fusione fra noise pop, gothic-rock e post-punk. La produzione e la registrazione, realizzate da Danny Wahlfeldt (fondatore e mente del gruppo), seguono gli stilemi della bassa fedeltà, per certi aspetti il progetto Grave babies ricorda quello di Mike Sniper, Blank Dogs. La passione per il lo-fi e le sonorità post-punk è la stessa, ma Wahlfeldt, a differenza di Sniper, è cresciuto a pane, Jesus & Mary Chain e Sisters of Mercy .
Il ritmo del disco, scandito dalla drum machine onnipresente, è incessante, non lascia un attimo di respiro. La prima impressione è quella di assistere alla riedizione gothic-rock / post-punk di “Psychocandy”. Le chitarre fuori tono di “Slaughter” e “Breeding” ne sono la conferma. La struttura portante del disco si basa su un utilizzo furbo ed avveduto dei synth, il suono d’insieme è volutamente straniante, i Grave Babies vogliono disorientare l’ascoltatore e lo fanno fin dall’inizio, con un’improbabile traccia audio iniziale (“I”), registrata presumibilmente all’incontrario. Episodi smaccatamente noise rock (“II”, “IV”) si alternano ad altri più pop (“Prostitution”, “No Fear”). L’atmosfera di sfondo, dai tratti cupi e malinconici, è il filo rosso, che unisce le sedici tracce.
I Grave Babies cercano di riproporre sonorità del passato, degli anni ottanta tanto bistrattati, in una nuova veste. A volte ci riescono, altre no, cadendo nel derivativismo.
67/100
(Monica Mazzoli)
6 marzo 2013