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24 gennaio 2009. Jamie Lidell al Velvet di Rimini, perfetto sconosciuto davanti ad un pubblico di qualche decina di unità. Era il tour di “Jim”, disco della ribalta per l’artista britannico; con il precedente “Multiply” aveva riletto soul e funky in chiave anni zero, con una spruzzata di elettronica a rendere il tutto (quasi) irresistibile, specie dal vivo. Nella serata ebbi il piacere di fargli da runner e riportarlo in albergo a Bologna. In macchina ascoltammo tre miei dischi, ricordo il suo entusiasmo per “Innervisions” di Stevie Wonder, un vero e proprio manuale della musica nera. Scherzando feci al cantante “You should make records like this!” e lui la prese con un sorriso.
Ora, caro Jamie, non dovevi prendere troppo sul serio quella frase buttata lì in un freddo inverno. Dovevi cercare di smarcarti da paragoni che hanno subito a loro tempo Terence Trent D’Arby e Jamiroquai, che hanno la metà della tua classe. Invece tutto si è fermato in quel momento in macchina e dopo un mese di tentativi e pazienza considero a malincuore questo ultimo album un’occasione sprecata.
Già dai singoli brani. “I’m Selfish” campiona inconsapevolmente l’intro di “Lucky Star” di Madonna; “You Know My Name” mischia tante idee del genietto di Minneapolis e la linea di basso di “Do Yourself A Flavor” è sputata a “Rapper’s Delight”. Inoltre gli arrangiamenti vocali e i synth richiamano continuamente il soul man meraviglia (dev’essere lui nel pur piacevole chorus di “You Naked”) del periodo più pop degli anni Ottanta. Sostanzialmente l’album fallisce proprio perché cerca in tutti i modi la perfezione formale di pezzi dai quattro minuti abbondanti, che finiscono però per annoiare e rendere piatto l’ascolto.
Sia chiaro, non tutto è da buttare. “Why_Ya_Why” mostra diverso piglio nell’originale interpretazione, con un bel solo di tromba e un finale ibrido di hip hop e glitch house. Qualche grande momento lo riservano anche la briosa “Big Love” e “Don’t You Love Me”, finalmente un pezzo al passo coi tempi, con un sound in bilico tra Jamie Woon e How To Dress Well, ma che potrebbe potenzialmente scalzare entrambi. Ed è irresistibile l’inserto di piano nella seconda parte, memore di Ray Charles, uno dei punti più alti dell’intera produzione di Jamie Lidell. Troppo poco per una sufficienza, però.
58/100
(Matteo Maioli)
22 marzo 2013