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Mi avvicino a questo nuovo, decimo disco dei Low con curiosità, passione, una certa diffidenza: in fondo, cosa possono realizzare di nuovo che non abbiano già fatto? “C’mon” di due anni fa, forte di una varietà di registro notevole, è riuscito a superare il pur innovativo “Drums and Guns”. E da vent’anni a questa parte la straordinaria band del Minnesota non fa che migliorarsi continuamente, come dimostrano l’accessibilità rock di “California”, i voli con sguardo all’infinito dell’incantevole “Laser Beam” ed i crescendo di rara intensità che ne fanno un must dal vivo (“Amazing Grace”).
Mi fermo qua con l’elenco dei meriti della coppia Sparhawk-Parker per non annoiare con l’ovvio e tornando al presente. La risposta alla questione di qui sopra è: chiediamo una mano al nostro amico Jeff Tweedy. Lo andiamo a trovare presso i suoi studi di Chicago, dove saprà confezionare al meglio la nostra malinconia di fondo e condurci ad un suono roots, cantautorale e corale. Un disco in salsa alternative-country quindi? Di certo “The Invisible Way” è una raccolta di brani prevalentemente acustici e di derivazione classica che mi hanno riportato alla mente ascolti vecchi e nuovi, come un sottile filo che lo unisce a “Rumours” dei Fleetwood Mac, “Harvest Moon” di Neil Young e “Sky Blue Sky” degli stessi Wilco.
Nello specifico delle tracce, “Plastic Cup” è un esempio di perfetta folk-ballad in un essenziale giro di tre accordi che sforati i due minuti si apre ad un arrangiamento arioso; “Waiting” un duetto al rallentatore tra marito e moglie da lacrimoni agli occhi. In “So Blue”, uno dei brani migliori del lotto, un piano vibrante fa da contrappunto alla straordinaria voce di Mimi Parker. “Just Make It Stop”, pezzo offerto in free download sul sito della band, suona pop come mai prima i Low avevano osato. Lo fa con le migliori intenzioni, nella volontà di lasciarsi alle spalle il dolore e ricostruire tutto daccapo (“Nothing but blue sky/Shining on my soul”).
Si arriva così alla vera outsider nell’economia dell’album, una perla questa volta più core che slow. “On my own” è costruita su due sequenze in pieno contrasto tra loro, un grazioso up-tempo che lascia improvvisamente spazio ad un’acida nenia elettrica di velvettiana memoria. Un momento liberatorio e di rara intensità, a mio parere necessario quando si punta tutto sull’indubbia classe del proprio songwriting a discapito dell’impronta rumoristica e sperimentale degli esordi.
“The Invisible Way” vince comunque la partita perchè ha un fascino innegabile che cresce con gli ascolti. Non è uno dei capolavori dei Low ma si sa, il gusto del pubblico ha la sua importanza ed i conti si fanno sempre a fine anno.
72/100
(Matteo Maioli)
12 marzo 2013