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Trevor Powers è un ventiquattrenne dall’aria triste e depressa. Nato in California, ma cresciuto a Boise, ha scelto un nome più sfigato e complicato del suo vero nome – Youth Lagoon, laguna della gioventù – per il sorprendente “The Year Of Hibernation” del 2011. Esordio praticamente homemade. Associato inizialmente al glo-fi, ma di fatto un compendio di gemme pop sommesse, vaporose e ipnotiche. Roba da pirotecnica collaborazione tra Thom York e i primi Modest Mouse in qualche bosco sperduto dell’Idaho.
Due anni dopo, Powers decide di affiancarsi all’onnipresente produttore Ben Allen (Animal Collective, Washed Out, Cut Copy, Deerhunter) e già si intuisce la volontà di rendere il suono ancora più profondo e sfaccettato. Il buon Allen sembra aver decifrato i misteriosi vaneggiamenti metafisici da ragazzo sociopatico recluso nella sua cameretta a drogarsi di Cocteau Twins, This Heat e Sun City Girls. Primo singolo, “Dropla”, e già si sviscera il recondito animo primaverile di Powers. Al di là dei paragoni più immediati coi momenti più colorati di Deerhunter e Bradford Cox, l’addizione di elementi negli arrangiamenti non sottrae a Youth Lagoon quel fascino incompiuto e intimista. E poi, seguendo l’ordine di apparizione nel web, “Mute”, stesso brano che apre l’album dopo il prologo strumentale di “Through Mind And Back”. Inizio etereo pericolosamente Sigur Ros, con improvvisa sferzata dissonante da giovanissimo maestro del pop psichedelico e con tanto di assolo anni novanta che si insinua ipnotico nel finale. Siamo solo all’inizio, è vero, ma di diritto tra i brani top del 2013. Non c’è storia. Il vortice si ammutolisce in una sghemba ballad da pronipote di Syd Barrett, “Attic Doctor”, ballad che scivola bruscamente in un’onirica mazurka rivista dai Mercury Rev. Se si esclude “The Bath”, la più vicina ai tranquillanti ambientali dell’esordio, questo “Wondrous Bughouse” rievoca a tratti alcune delle soluzioni bizzarre del sottovalutato secondo disco degli MGMT.
Con la differenza che Trevors Powers appartiene al filone degli hipster di periferia presi male, e non a quello degli animali sociali imbottiti di droghe sintetiche. Così il suo gusto grottesco non rasenta mai il kitsch e nei momenti iperarrangiati si ispira a eteree cacofonie molto Flaming Lips più che agli anthem del pop visionario più barocco (“Pelican Man”, “Third Dystopia). In “Sleep Paralysis” le suggestioni dell’ibernazione d’esordio sfociano in momenti del genere e si spengono come d’incanto. “Rapsberry Cane” sembra un pezzo anni Ottanta, ma cresce come una perfetta “deserter’s song” dei Mercury Rev (credits: “Opus 40”), ma senza eccessi teatrali. L’improbabile Youth Lagoon in chiave epica lascia a bocca aperta, ma si rintana nel suo letargo sociopatico giusto in tempo per i titoli di coda, nell’epilogo avvolgente e introspettivo di “Daisyphobia”.
Fobia per le margherite, eccoci, questo è il Trevors Powers che tutti ricordavano.
82/100
(Piero Merola)
12 Marzo 2013