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Fin dalla nascita del suo progetto musicale Simon Green (in arte Bonobo) ha sempre indagato dentro al mondo a sé stante del suono perfetto, lineare ed eterno. Un classicista che applica le sue teorie alla musica elettronica contemporanea. Ma cos’è la perfezione se non una continua ricerca di qualcosa che consideriamo migliore?
La perfezione l’artista inglese l’aveva sfiorata quando tre anni fa era uscito il suo capolavoro “Black Sands”, un disco dove si andavano ad intrecciare generi su generi che formavano un suono tra i più caratteristici della musica elettronica (e non solo) contemporanea.
La domanda da porsi ora non è come fare meglio, ma come restare agli stessi livelli. Bonobo ci riesce, in un disco che strizza l’occhio a sonorità che ultimamente sono state riscoperte e portate avanti da altri artisti d’oltremanica e non. In “The North Borders” troviamo riferimenti più o meno evidenti ad artisti del calibro di Four Tet, Disclosure e Flying Lotus. Quello che stupisce di più è la limpidezza di ogni singola nota che si interseca alla precedente in modo del tutto naturale. Si fa sempre più solare l’abilità dell’artista nel coinvolgere vari strumenti riuscendo a cavare fuori da ognuno di essi la giusta dose di sensibilità, rendendo ogni singola canzone organica e tremendamente giusta all’orecchio dell’ascoltatore (si veda l’utilizzo dei violini in “Ten Tigers”).
Bonobo si avvale di preziose collaborazioni nelle parte vocali in cinque pezzi. Grey Reverend, Erykah Badu, Szjerdene e Cornelia prestano le loro voci dando un tocco soul, jazz alla timbrica dei pezzi. Succede nell’iniziale “First Fires” per poi proseguire con “Heaven for the Sinner”, “Towers”, “Transits” e la conclusiva “Pieces”.
La grande abilità dimostrata dall’artista è la maneggevolezza con cui gestisce così tanti generi all’interno dello stesso album, qualcosa di particolarmente unico nella musica odierna. Si passa senza problemi dal downtempo di “Emkay” alla fourtetiana “Sapphire”, dalle nuvole di “First Fires” al cielo notturno splendente di “Jets”. Pezzi dove la voglia di ballare prende il sopravvento (“Antenna”) si alternano ad altri dove si rimane incantati semplicemente ad ascoltare (“Pieces”). Il disco è lineare e imprevedibile allo stesso tempo, ogni singola canzone s’incastra all’altra in modo da non poter saltare una sola traccia, quasi l’autore ci voglia dire: “Ok, questo è il mio stile, lo dovete ascoltare così”. Dargli torto sarebbe un errore per le vostre orecchie.
79/100
(Jacopo Boni)
18 aprile 2013