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Cinque ragazzi di Pesaro alla conquista del Sidro Club, feudo romagnolo del puro rock’n’roll. Differente proposta ma stesso piglio da veterani sul palco, acquisito grazie all’esperienza dei protagonisti in questione in diverse formazioni (Be Forest, Damien, Key-Lectric…). E parecchie belle canzoni da snocciolare, che è la cosa più importante. Brothers in Law e Versailles presentano i loro nuovi lavori pubblicati un mese e mezzo fa, forti del consenso unanime della critica – e diffusi via streaming sulle principali piattaforme. Rispettivamente, “Hard times for dreamers” e “1976-1991”. Reduci dal mini tour americano con tappa al SXSW di Austin i primi, beniamini di casa i secondi, superano a pieni voti l’esame di maturità 2013 e trasmettono l’energia delle prime tiepidi notti di primavera. Ed il Sidro non può che arrendersi.
Partenza da knock out con il set dei Versailles, tagliente al punto giusto. Il duo composto da Manu Magnini alla chitarra elettrica/voce e Damiano Simoncini alla batteria unisce al mood punk l’amore per frasi blues, rumore e ritmiche danzerecce; volendo parafrasare il titolo dell’album: in viaggio da Ramones e compagnia bella (1976) fino a Slint e Nirvana (1991), un calcio in faccia a modernità e pretesto. Si susseguono senza sosta “Rollin’”, numero alla Iggy Pop dal drumming poderoso; “Ma dov’è la severità?” singolo nervoso con il piglio dei migliori Black Keys e “Sweetie Queers”, doo-wop e garage a braccetto nel divertentissement del testo. Da “Dust & Chocolate” di due anni fa il riff killer con gioco di pick-up di “Swimming pool” e la personale interpretazione di “Mongoloid” dei Devo, distorsione al massimo ed il gotico cantato di Magnini, al limite dello spettrale. La canzone è letteralmente fatta a pezzi e la chitarra ruzzola al suolo immersa nel feedback come una liberazione.
Passano pochi minuti ed arrivano i Brothers in Law, la curiosità nel locale cresce. Il disco di cui sopra mi aveva lasciato buone sensazioni, dal songwriting in crescita all’acquisizione di una propria identità musicale che ha permesso a Nicola, Andrea e Giacomo di scavalcare i nostri confini. Vorrei sottolineare il primo aspetto a mo’ di esperimento; provate a spogliare le nuove canzoni da stratificazioni ed effetti vari ed ecco che vi appariranno in una nuova veste come se fossero opera di un Buddy Holly (i tre accordi di “She’s gone too far”) o dei Beach Boys (“Go ahead”, poi densa di new-wave ) nelle loro strutture immediate e altamente melodiche. “Lose control” è il brano che sintetizza al meglio le varie influenze e che avvicina di più il trio a Wild Nothing e The Pains of Being Pure at Heart; “Sharp Leaves” dall’Ep “Gray Days” ha invece la forza del grunge all’italiana dei primi Verdena.
L’apice del concerto è però tutto nella doppietta “Shadow I” e “II” che alla maniera delle due “Sprawl” degli Arcade Fire sono la prima un bozzetto nostalgico ed ambientale per sola chitarra, la seconda un up-tempo che ti si stampa immediato nella testa con un vibrante ponte strumentale molto eighties a riprendere il tema del brano gemello. Finale riservato a “Holy weekend”, forse l’anello mancante tra prima Creation e C-86, ed al magnetismo molto Beach House di “40 hours”. Per unirmi ai sognatori è un attimo, per la lode è solo questione di tempo.
(Matteo Maioli)
19 aprile 2013