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Il dibattito è sempre stato aperto sugli effettivi meriti di Hugo Race. Definito fin troppe volte una copia carbone di Mark Lanegan, oppure l’ombra di Nick Cave suo compagno di viaggio nei primi anni ottanta. Fortuna che negli anni le cose sono cambiate, a partire dalla musica divenuta un caleidoscopio di generi ed umori; il songwriting poi è decollato da livelli di quantità verso livelli di eccellenza, a riprova i due lavori a firma The Fatalists. Il concerto prende le mosse proprio da quei brani, dal vivo ancor più carichi di pathos, duelli tra chitarre imbizzarrite, storie di amore, desolazione e morte.
Prima di entrare nel dettaglio di due ore di manna per le orecchie dedico qualche riga ai ragazzi degli Using Bridge, rock band locale nonchè co-organizzatori di queste serate velvettiane che hanno visto succedersi Giardini di Mirò, The Raveonettes e Zeus! tanto per citarne alcuni. Forti di un ultimo cd “And I will be heard” distribuito da Go Down Records, presentano brani poderosi tra stoner e hard-rock più tradizionale, in cui risaltano l’ottima voce di Manuel Ottaviani e il sound rauco delle chitarre. Tra questi “Too fast” è una bella cavalcata alla Kyuss, “Drop” una ballata vibrante che sarebbe piaciuta a Eddie Vedder; “Black rebel” infine una summa della loro produzione, con un intro dilatato e acido, una grande estensione vocale ed improvvise accelerate zeppeliniane.
Ma torniamo a Hugo, fragrante in questa serata come il profumo omonimo (battutaccia da censura…) e incantevole nel capeggiare una band rodatissima nonchè, con nostro grande orgoglio, tutta italiana (praticamente i Sacri Cuori). L’aspetto è quello dell’out-law, mentre la musica tocca più lidi, quali folk, blues e rock psichedelico. “Dopefiends” apre ipnotica il concerto e cala una grande atmosfera nella sala; segue “No stereotype”, un tormento blues-rock alla Eels. “Snowblind” appare il pezzo più pop in scaletta, una tonda melodia in stile R.e.m. suonata dai Calexico e magari cantata da Lanegan. Nell’attacco ricorda “Friction” dei Television, ma “Slow Fry” suona come un honky-tonk robotico per gli anni duemila; come sul primo disco “The Fatalists” le succede “Will you wake up”, lullaby emozionante e desertico in cui il tempo si ferma, nonostante manchi la delicata voce di Miss Kenichi a far da contraltare ai toni cupi del cantante australiano.
La seconda parte del concerto non molla di una virgola, anzi alza la posta in palio. “Coming over” è una superba ballata alla moviola che ricorda i migliori Mercury Rev, spruzzata da polvere di stelle e feedback; “Meaning gone” è tutto un gioco tra le brevi frasi della Epiphone di Hugo Race e l’acido sound della Fender di Antonio Gramentieri, fino ad aprirsi in un chorus da fine del mondo. Le due perle della serata, fino all’ingresso del sax di Francesco Valtieri che ha impreziosito il mantra di “Nightvision” ed i pezzi del bis con un tocco freak anni 60, fatto di improvvisazione, blues malato e ossessivo. Finale per “Cry me a river”, solo Hugo The Preacher ad ammaliare il pubblico con la storia del suo cuore spezzato. Peccato manchi “Too many zeroes” ma sarà per la prossima. Viva Hugo Race.
La scaletta di Hugo Race & The Fatalists:
Dopefiends
No stereotype
Serpent egg
Snowblind
No angel
Slowfry
Will you wake up
Comin’ over
Ghostwriter
We never had control
Meaning gone
Shining light
Nightvision
Never say never
Cry me a river
(Matteo Maioli)
27 aprile 2013