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Quando si tira in ballo Lana Del Rey è impossibile non parlare di quello che rappresenta a livello puramente estetico, oltre che musicale. Ma il più delle volte i cosiddetti critici tendono a calcare troppo la mano, anzi la penna, sulle sue labbra evidentemente gonfiate da vigorose iniezioni di silicone, sui lunghi capelli che le ricadono morbidi e vaporosi sulle spalle, sullo sguardo languido, al limite della svenevolezza. Dimenticando che Lizzy Grant è una popstar a tutti gli effetti e come tale si comporta.
Forse le pose ancheggianti di Britney Spears, la volgarità stravagante di Lady Gaga, i capelli azzurri di Katy Perry, i balletti provocanti di Christina Aguilera, il sorriso sbilenco di Kesha mentre decanta il suo trash-pop, non sono impressi, nel bene e nel male, nella mente di tutti coloro che hanno vissuto almeno un po’ la musica della propria era? E dire che la bellezza di Lana Del Rey risiede nel fatto che la sua immagine di popstar decadente e romantica appare tremendamente elegante e seducente, immagine che pur con tutti gli eccessi del caso, non cade mai nel cattivo gusto, anche quando arriva a pronunciare frasi come “my pussy tastes like Pepsi-Cola”, come accade nel secondo pezzo di questo EP, “Cola”. Un EP dal titolo evocativo, “Paradise”, che va ad aggiungersi a quello che era stato il disco del vero e proprio debutto, “Born To Die”. Quel disco che ci aveva sorpresi con la pacatezza talvolta affascinante talvolta tediosa di “Videogames” prima, e “Born To Die” dopo. Che ci aveva regalato altri ottimi singoli, quali “Summertime Sadness”, con quel balbettio che a Lady Gaga fa un baffo, l’ondeggiante ballata “Dark Paradise” e le striature r’n’b’ di “Blue Jeans”.
Lana Del Rey va amata per ciò che è: una moderna Marlyn Monroe che si strugge per la bellezza che andrà ad affievolirsi, per il terrore che la giovinezza possa fuggire via da un momento all’altro, per un amore che, al di là del sentimento in sé, viene vissuto col cinismo di chi conosce l’animo umano e lo teme, ma lo racconta con la spregiudichezza di una ragazzina immersa nella grazia e nel portamento di una donna matura e realista che pare riemersa dagli anni ’50. Quella Marlyn Monroe, dicevamo prima, da cui riprende fragilità e carica erotica, pose e attitudini cinematografiche, e che la stessa cantante cita in una sorta di delirio armonico (“Elvis is my daddy, Marlyn is my mother”) in uno dei pezzi più convincenti tra le otto tracce aggiuntive di “Paradise”, ovvero “Body Electric”. L’impressione, però, è che “Paradise”, anziché rafforzare l’appeal musicale assolutamente personale della cantante che avevamo appreso da “Born To Die”, tenda ad affievolirlo, a renderlo più fragile e a non arricchirlo di qualcosa di nuovo. E se è vero che la forza della signorina Grant risiede proprio nell’apparente vacuità di un sentimento erotico e scettico al contempo, è vero anche che sarebbe stato lecito aspettarsi qualcosa di più da brani come “Yayo” e “Gods and Monsters”, che girano letteralmente a vuoto, tra un’iper produzione eccessivamente laccata che stavolta tende a soffocare il talento e la particolarità vocale della cantante.
Fanno meglio la cover di “Blue Velvet”, originariamente scritta da Bobby Vinton nel 1963, in cui Lana Del Rey dimostra –semmai ce ne fosse ancora bisogno- di trovarsi perfettamente a suo agio tra sontuosità romantiche, e il singolo di lancio “Ride” che, forte anche di un monologo iniziale e di atmosfere che si riallacciano a “Born To Die”, appare come una sincera dichiarazione di libertà e di amore, dove le due cose sono strettamente legate tra loro in un’apparente contraddizione che si basa però su presupposti sbagliati.
Ma a cambiare realmente qualcosa è solo la conclusiva “Bel Air”, eterea e ineffabile come non mai; è proprio questa la canzone in cui ravvisare sfumature nuove, più morbide, ariose. La Del Rey chiude in gran stile, dimostrando di non essere solo un prodotto di marketing privo di talento ma di sapere ciò che fa, lanciando la sua voce verso terre incontaminate in un pezzo sognante e luminoso che avrebbe fatto invidia anche ad una giovane Kate Bush.
Tra alti e bassi, Lana Del Rey dimostra ancora una volta di essere dotata di sublime sensibilità artistica, che andrebbe però sicuramente indirizzata meglio, verso una strada in cui la nostalgia non si trasfigura in noia e il talento appaia fulgido e dirompente come spesso ci ha dato modo di constatare.
70/100
(Raising Girl)