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Gli anni ottanta-novanta dell’underground americano continuano a vivere, lo fanno di riflesso con le nuove band, fortemente debitrici verso il passato, e con le vecchie glorie, ancora sulla cresta dell’onda, animate da passione, coerenza e onestà. Dinosaur Jr., Meat Puppets, Mudhoney e altri gruppi della scena alternative rock si divertono a suonare in giro per il mondo, non ce la fanno proprio a stare fermi, a casa.
Mark Arm, Steve Turner, i fratelli Kirkwood, J. Mascis non incarnano di certo il prototipo di umarells, non stanno a guardare i lavori in corso, amano muoversi sul palco, con la giusta dose di follia e ironia. Parallelamente all’attività live portano avanti la produzione discografica, con la consapevolezza di aver già dato il meglio di sé anni fa. “Vanishing Point” è il ritorno discografico dei Mudhoney, un album sincero, senza pretese. Non c’è d’aspettarsi il capolavoro, i tempi di “Superfuzz Bigmuff” sono lontani, l’urgenza creativa degli esordi, quella dose di strafottenza e irruenza espressiva ha perso d’intensità. E’ nella natura delle cose, non si è giovani per sempre. I Mudhoney non fingono, si mostrano per quello che sono, senza ipocrisie. La musica è quella di sempre, un misto di garage-punk, proto-punk, reminescenze sixties. La coppia Steve Turner- Mark Arm non perde il passo, il primo costruisce il tradizionale tappeto sonoro di distorsioni e fuzz (“In this rubber Tomb”, “The Final course”), il secondo, impossessato dal demone di Iggy Pop, dà voce alla rabbia di generazioni passate e future (“I don’t remember you”, “Douchebags on parade”).
“Vanishing Point” è il classico disco alla Mudhoney, niente di più e niente di meno. Una certezza, quasi una sicurezza per gli appassionati. Difficile rimanere delusi.
68/100
(Monica Mazzoli)
10 maggio 2013