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Tra My Bloody Valentine, The Knife, Nick Cave, Phoenix, Dinosaur Jr, l’hanno definito #bestfestivalever per il cast al solito stellare. Nulla di nuovo, da ormai cinque anni il Primavera è diventato il miglior festival europeo per l’equilibrio tra grandi nomi di qualità e nuove proposte di qualità. Di nuovo c’è una suggestiva ruota panoramica che oltre a fare la gioia degli instagrammers in costante proliferazione, permette di godersi dall’alto le performance del palco Heineken e del palco ATP. Una disposizione dei palchi che nonostante il record di presenze, 170 mila, permette di muoversi agevolmente tra i percorsi in cemento al ridosso del mare. E l’idea di annunciare il primo grande nome del 2014 sugli schermi dei tre palchi principali, un anno prima, come neanche al Coachella o al Glastonbury: i Neutral Milk Hotel. Cui probabilmente si aggiungeranno Arcade Fire e Slowdive in odor di clamorosa reunion.
L’attesa per una delle migliori band degli anni Novanta è però ancora lunga nonostante gli abbonamenti siano già in vendita. Noi proviamo quindi, dopo l’avventuroso live tweet (cliccare sulle date in basso per ripescarlo) a ripercorrere in breve le esibizioni scelte dal nostro affezionato inviato Piero Merola nella tre-giorni di Barcelona. Ogni nome affiancato da un voto in centesimi, come da linea ufficiale di Kalporz. Difficile vedere tutto e tutti, grandi esclusi, tra i tanti, per motivi legati al gusto e alla logistica, The Postal Service.
Sarà per la prossima volta, per il possibile #bestfestivalever2.
giovedì 23 maggio
Wild Nothing: 64/100
Tra i vari opener più o meno locali, è la band di Jack Tatum il vero show d’apertura. Show per così dire. Come prevedibile risulta un po’ inadatto alle grandi arene e il palco Heineken è un banco di prova non facile. Il vento fa da padrone, la temperatura è rigida, ma non aiuta a esaltare le fredde atmosfere di Wild Nothing. Gli anthem da Smashing Pumpkins bedroom non bastano.
Poolside: 72/100
Scagati dai più proprio per via di Wild Nothing, il duo di Los Angeles che si autodefinisce band da “daytime disco” si conferma uno dei nomi electro-pop più frizzanti sulla scena. L’arena Ray Ban si scalda subito. Li avremmo visti volentieri di notte. “Slow Down”, un anno dopo, è sempre più hit.
Woods: 69/100
Senza il pacato fondatore della Woodsist Records la scena indipendente americana sarebbe stata molto più povera (vedi Real Estate e Ducktails, Kurt Vile, Moon Duo, Blank Dogs). Il folk-rock puramente americana dei suoi Woods illumina il tramonto del palco Vice.
Savages: 83/100
Le quattro incazzatissime inglesi sono uno dei nomi più attesi. Il debutto è stato un provvidenziale pugno nello stomaco a chi credeva che il wave revival avesse ormai detto e dato tutto. Dal vivo hanno un piglio assassino, lei non sorride neanche a pagarla. Basso e batteria sono un treno e i brani, nonostante la freddezza generale del palco Pitchfork, infuocano le prime file.
Tame Impala: 83/100
Loro e i loro visual da impasticcati Sixties ce li saremmo goduti al buio. Il presunto pensiero unico hipster così come percepito in Europa e nella neo-hip Spagna è meno unico anche grazie a loro. Vestiti da freakettoni un po’ sfigati, aprono con un intro dei Led Zeppelin e da “Solitude Is Bliss” fino alla granitica “It’s Not Meant To Be” sparano nell’etere i pezzi più riusciti del secondo, ottimo “Lonerism”. Sottovalutati.
Dinosaur Jr: 85/100
Ci sarebbe molto da dire sugli spagnoli chiacchieroni che sembrano capitati lì per caso e non conoscono mezza canzone dei Dinosaur. Molto meno da dire sui Dinosaur stessi che possono suonare un’ora di hit da chiesa evangelista e risulterebbero comunque uno dei migliori gruppi live di sempre. La chitarra di Mascis urla, “Start Choppin’” e “Sludgefeast” hanno un impatto da sbiancare come lui. Manca Murph per motivi misteriosi, ma conta poco, quando una “Just Like Heaven” dei Cure o “Chunks” dei Last Rights (ospite Damian Abraham, il corpulento vichingo dei Fucked Up) si propagano da quel muro di Marshall che solo loro
Deerhunter: 74/100
Suonano tre giorni su cinque per via della defezione causa maltempo dei Band Of Horses. Senza di loro (come gli Shellac) non ci sarebbe Primavera. Anni fa erano così acerbi e intimiditi, ora reggono l’arena senza troppe ansie. E “Monomania” ha uno spessore live anche migliore di “Halcyon Digest”.
Killer Mike: 81/100
Vista la penuria di hip hop si fugge dalla resa The Postal Service per andare a vedere uno dei nomi clou della scena americana. La stazza è imponente come il flow e la sua carica.
Grizzly Bear: 86/100
Saranno bruttini a vedersi come sottolinea più di qualcuno in platea, ma loro sono un altro di quei gruppi che dal vivo vedi a scatola chiusa e il cuore ti si stringe dalla prima all’ultima nota. Unica pecca la scaletta relativamente breve. Ma in fondo non sono loro gli headliner del palco Primavera e quindi glielo si perdona. Tutti brani dagli ultimi due album, salvo “Knife”. Un altro live memorabile dopo il Primavera 2010 per una delle band simbolo di Brooklyn.
Death Grips: 88/100
A tutti gli effetti il live top della giornata per impatto della proposta, per violenza e per il coinvolgimento dei pochi coraggiosi assiepati nelle prime file del palco ATP. Il rap dissonante e hardcore del collettivo californiano massacra l’udito e servirebbe qualcosa come i Phoenix per rimettere a posto timpani e ghiandole interne.
Phoenix: 88/100
Appunto, i Phoenix. Ruffiani, furbi, ben vestiti, fighettini, parigini, ammiccanti, ma ineccepibili. Il loro batterista fa per sei e il live è tutto fuorché plastica. L’apparizione di J Mascis rende impagabile i loro medley impazziti. Al Primavera è finalmente festa, “Long Distance Call”, “Too Young” e le più recenti “1901” e “Lisztomania” fanno impazzire tutti. Ai festival serve anche questo.
Fuck Buttons: 88/100
In queste ore tarde, sono le tre passate, sembra concentrarsi il meglio anche perché i Fuck Buttons in odor di nuovo album, saturano ulteriormente l’aria. Un assalto supersonico che bissa la loro ultima esibizione al Parc Del Forum. Con una maggiore consapevolezza dei propri mezzi, con minore senso del limite.
Animal Collective: 79/100
Saranno liberi di fare il cazzo che gli pare? Così la stessa band che portava in giro per l’Europa “Merriweather Post Pavilion” senza suonare i brani più famosi del disco, si concede un set ambientale e introspettivo, privo dei grandi momenti da Beach Boys epilettici che li hanno resi una delle band più influenti, odiate e imitate degli anni Zero. Ma, al di là, del momento karaoke di “My Girls”, arrivano tra gli otto brani eseguiti, la siderale “What Would I Want? Sky” e “The Purple Bottle” da “Feels”. Serve altro?
John Talabot 61/100
Non ne abbiamo più, lui fa un djset, è catalano e siamo in Catalunya. Lasciare perdere.
venerdì 24 maggio
Kurt Vile 88/100
Difficilmente si può chiedere di meglio per iniziare una giornata lunga e impegnativa. Il tempo regge, la temperatura resta tra il mite e il freddo. Kurt Vile fa volare via la mente con un set etereo e atmosferico che mette, se ce ne fosse bisogno, in luce il suo cristallino talento cantautorale. E il valore di un disco incredibile come il nuovo “Wakin’ On A Pretty Daze”. Anestetico.
Merchandise 77/100
Si può venire da Tampa, Florida e fare post-punk? Certo, e i Merchandise a tratti riescono a ricordare i momenti meno melensi di Echo & the Bunnymen. Pensare che erano partiti dall’hardcore.
OM 78/100
Finalmente un po’ di drone, la band nata dalle ceneri degli Sleep ha l’effetto delle nubi.
Django Django 79/100
Fanno tutto e il contrario di tutto. Il loro classicone “Default” ha un riff garage d’annata, “Hail Bop” è piaciona ed electro. A partire dal look coordinato i quattro anglo-scozzesi-nordirlandesei fanno passare un’ora di puro divertimento festivaliero tra scorci tribali, sambe e psichedelie di ogni sorta. Impossibile non ancheggiare.
Solange 77/100
Non è soltanto la sorella parruccona e minore di Beyoncé con la quale condivide fascino vocale ed estetico. Si veste meglio, ha dei musicisti super badass e nonostante i tre dischi all’attivo, concentra tutto sullo spassosissimo ultimo EP, “True”. Roba da Spice Girls rinate ai Caraibi.
The Jesus & Mary Chain 72/100
Tasto dolente. Non basta l’apparizione come nel migliore dei sogni della stralunata Bilinda Butcher (My Bloody Valentina) in “Just Like Honey”. Una delle band della vita si snatura ripulendo il suono. In fondo lo si sapeva e lo si era già appurato ai tempi della reunion del 2007. Peccato, perché gli anthem fanno strabuzzare gli occhi (“Some Candy Talking”, “Happy When It Rains” così per dire) fino alla chiusura strappacuori di “Never Understand”.
Neurosis 81/100
Prego?
Doldrums 70/100
L’amichetto di Grimes arriva con la band in versione ridotta. Il suo album è stato uno degli esordi più carichi dell’anno, dal vivo è accolto in maniera poco trionfale anche perché uomini, donne, bambini sono tutti a vedere James Blake.
The Wedding Present 76/100
E così mentre aspetti i Blur succede che sulla balconata vip si mettono a suonare i Wedding Present e ci resti di sasso.
Blur 87/100
Damon Albarn rinato, ma gli altri sono in forma anche più smagliante. La scaletta da leggere tutta d’un fiato parla da sé: “Girls & Boys”, “Popscene” “There’s No Other Way” “Beetlebum” “Out of Time” “Trimm Trabb” “Caramel” “Coffee & TV” “Tender” “Country House” “Parklife” “End of a Century” “This Is a Low” “Under The Westway” “For Tomorrow” “The Universal” e “Song 2” che serve a svicolare via dalla folla mentre gli spagnoli fanno gli scemi. Tornare bambini senza il bisogno di salire come qualcuno sulla ruota panoramica.
Goat 88/100
Il mini-momento Svezia della giornata lascia il segno. Prima con questi improbabili svedesi da un paese anonimo dal nome altrettanto improbabile, Korpilombolo. “World Music” è stato uno degli esordi più esaltanti dello scorso anno. Tra sabba tribali, visioni mistiche e chitarroni da ex-adolescenti metallari.
The Knife 90/100
Viva la Svezia, viva The Knife. Chi li ha criticati per l’eccessiva teatralità di uno spettacolo che assume spesso i risvolti di un ballet o di un claustrofobico musical lynchiano per deviati mentali, non ha capito un cazzo della vita.
Disclosure 84/100
Questi due fratellini inglesi hanno meno di quarant’anni in due e ci fanno ballare fino all’alba con il meglio del peggio che ci ha fatto ballare e credere alternativi negli ultimi dieci anni. Complimenti ai genitori.
sabato 25 maggio
King Tuff: 83/100
Chi si è ripreso velocemente dall’alba dance e chi non si è ripreso del tutto è premiato con il live negli assolati giardini del Parc de la Ciutadella. Il garage scazzato e rilassato dei Black Lips versione residuati hard-rock premia i numerosi presenti. Godibile antipasto direttamente dal palco gratuito extra-forum.
Adam Green & Binki Shapiro: 50/100
Premesso che non ho mai ascoltato un album di Adam Green, carini, simpatici, nulla da dire, che due palle però.
Mount Eerie: 76/100
Non esattamente quello che si chiederebbe per iniziare una giornata all’insegna del buon umore. Eppure Mr. Microphones gela ogni sorriso come solo lui e pochi altri depressoni rimasti. Eppure nel relazionarsi con la platea sembra molto più solare di quanto si potrebbe credere.
The Sea And Cake: 71/100
Giusto per ricordarsi che nella musica c’è anche sostanza.
Melody’s Echo Chamber 76/100
Il progetto della protetta francese dei Tame Impala dà una spruzzata di shoegaze che non fa mai male. Suoni semplici ma privi di sbavature.
Mac DeMarco 78/100
L’abbiamo visto di recente e nulla, si veste sempre uguale, ha scritto canzoni che si fissano in testa e dal vivo si diverte anche più dei presenti.
Dead Can Dance: 85/100
Finalmente Mac DeMarco aveva fatto smaltire con un po’ di positività i postumi e le fatiche del weekend che volge al termine. Bene, ci pensano gli spettrali mantra dal retrogusto etnico della storica band australiana di Lisa Gerrard e Brendan Perry a far ripiombare l’umore in un tunnel senza uscita. Al crepuscolo si rischia di rimanerci secchi.
Wu-Tang Clan: 80/100
Senza di loro gli anni Novanta non sarebbero mai esistiti. W al cielo. #motherfucka
Nick Cave & the Bad Seeds: 85/100
Mick Harvey è andato via, gli ultimi dischi non sono stati esattamente gli episodi più brillanti della sua lunghissima carriera. Ma quando Re Inchiostro sale sul palco con quella che resta una delle band più incredibili della storia, ogni ragionamento lascia il tempo che trova. Gli scossoni noise gelano l’aria, lui vestito patinato si arrampica sulla transenna interagendo come un ragazzino con le prime file. Nick Cave tutto può senza risultare patetico, peccato duri per esigenze di orari e scalette meno di un’ora.
Liars: 86/100
Cassa dritta e pedalare. Ancora una volta la prova di essere una delle migliori band “post-Undici Settembre”.
My Bloody Valentine: 88/100
In pochi, tre anni fa ci avrebbero scommesso, che dopo quell’impagabile doppia esibizione (all’aperto e nell’auditorium) del 2009 sarebbero tornati con il seguito di “Loveless”. Volumi da altro mondo, scaletta finalmente cambiata con tre new entry e “Wonder 2” finale a quattro chitarre da rave shoegaze che va oltre le definizioni. Trascendenza pura.
Hot Chip: 79/100
Che festival sarebbe senza di loro? Over and over and over and over.
27 maggio 2013